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Pietà

07/09/2012 10:00

Erika Pomella

Recensione Film,

Pietà

Gli antichi erano soliti utilizzare il termine pietas per descrivere una sorta di devozione religiosa...

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Gli antichi erano soliti utilizzare il termine pietas per descrivere una sorta di devozione religiosa. Con il mutare dei secoli e l’avvicendarsi dei credi spirituali, oggi il termine indica un sentimento di misericordia, un moto d’animo che tende alla compassione e alla generosità. La pietà, però, richiama anche la scultura di Michelangelo che raffigura la Madonna mentre stringe tra le braccia il corpo senza vita di suo figlio. A questa immagine potente e drammatica si rifà il regista coreano Kim Ki-duk per il suo diciottesimo lungometraggio, Pietà, presentato alla 69° edizione della mostra di Venezia.


Kang-do (Lee Jung-Jin, famoso in patria per aver preso parte ad importanti drama) è un giovane trentenne che lavora per una particolare agenzia di recupero crediti. Invece di limitarsi a mandare avvisi di mora, il ragazzo rende storpi i suoi creditori per poter così incassare i soldi delle assicurazioni e pareggiare i debiti. Il ragazzo vive solo in un appartamento fatiscente, sogna amplessi che non riesce ad avere nella vita reale e la sua unica compagnia è quella del fidato coltello. Tutto cambia quando dal nulla appare Mi Sun (Cho Min-Sun), donna misteriosa che si presenta come la madre di Kang-Do. Lentamente e con fatica, il ragazzo accetta la presenza di Mi Sun, lasciandosi piegare dal desiderio di avere un genitore al quale appoggiarsi: man mano che i giorni passano, Kang-Do regredisce ad uno stato quasi infantile, rinuncia al suo lavoro sanguinario e si scopre inaspettatamente gentile e misericordioso. Ma la vita ha altri piani per Kang-Do e Mi Sun: presto un velo nero di colpa e peccato cadrà tra i due personaggi, costringendoli a fare i conti con la propria anima.


Dopo aver sconvolto il pubblico del Festival di Venezia con Isola nel 2000, Kim Ki-duk torna in laguna con un film sporco, viscerale, incredibilmente forte sia nelle immagini che nel contenuto. Quello che il regista coreano mette in scena, nell’intimità di una storia che dal locale mira all’universale, è la difficoltà dei rapporti umani, che ondeggiano sul precario equilibrio tra odio e amore, facce di una stessa medaglia, spesso difficili da separare. Kang-Do è un personaggio ricolmo d’astio: sentimento oscuro e potente che il ragazzo riversa sulle proprie vittime, per le quali non dimostra neanche un briciolo di pietà. Porta avanti missioni sozze di sangue e suscita il ribrezzo di chi guarda e di chi subisce. Il pubblico lo odia così come le sue prede: lo giudica subdolo, privo di cuore, privo di onore. Non basta scoprire la sua condizione di orfano, non basta la solitudine che ammanta ogni singolo giorno della sua vita. La fotografia sporca e grezza rimanda l’orrore e l’oscurità di cui è fatta l’anima del protagonista. Persino l’arrivo di Mi-Sun non porta luce nella dimensione infernale nella quale il ragazzo sembra trovarsi tanto a suo agio. Al contrario, l’arrivo della donna serve a portare in superficie un livello ancora più sadico e crudele, che trova concretizzazione in scene forti e disturbanti, nelle quali Kim Ki-duk dimostra il suo coraggio nel non aver paura di mostrare quanto il mondo possa essere pieno di ribrezzo. Nel cinema del regista coreano tutti sono vittime e carnefici, tutti condividono la condizione di peccatori e tutti sono egualmente responsabili dell’orrore perpetrato. La macchina da presa riprende incesti, torture, forzature stomachevoli; eppure niente di tutto questo fa male come gli occhi di madri anziane che si vedono costrette nel ruolo di impotenti spettatrici, che piangono figli e menomazioni, piegate su tombe e su esistenze ormai prive di qualsiasi gioia.


Kim Ki-duk mette in scena un film sulla Madre, figura mistica e divina; il suo sguardo spia le loro vite vuote, private anche del fuoco della rabbia. Segue i solchi delle rughe, delle sofferenze e le sbatte contro l’anima di Kang-Do che si risveglia, gradualmente, all’umanità, in una diegesi che mette l’universo femminile al primo posto. Sono le donne le vere parti attive del film: recuperano agli errori dei figli e dei mariti, lavorano, usano perfino il proprio corpo, sfruttandolo per propria scelta, e non costrette da uomini privi di valore. E accanto a tutto questo, ecco che emerge l’altra protagonista emotiva della pellicola: la Vendetta. L’urlo straziante che apre il film e il filo di sangue che lo chiude sono le parentesi perfette di un film che annovera anche la città di Cheonggyecheon tra i protagonisti: una città tentacolare, dove vecchio e nuovo si inseguono, e la gente si passa accanto senza riconoscersi, dove un’anima accecata dal dolore può pianificare la perfetta e crudele realizzazione di una vendetta straziante, paragonabile forse solo a quella messa in scena nella famosa trilogia del connazionale Park Chan-wook. Imperdibile.


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