
Sono ormai decenni che la cinematografia horror versa in precarie condizioni di salute: le ottime idee sono rare quanto le frasi articolate da Jason Voorhees, quelle buone latitano. Si ha l’opprimente sensazione che ormai si sia detto tutto o quasi e le medesime formule vengono ormai ripetute all’ossesso con cambiamenti insignificanti e risultati spesso sconcertanti. In mancanza di nuovi terreni “vergini” da poter battere con relativa tranquillità, l’unica alternativa valida sembra quella di stravolgere meccanismi consolidati da anni per sfruttarli sotto una luce completamente nuova: è il caso, ad esempio, del recente Quella casa nel bosco che, partendo da assunti tradizionali del genere, riusciva a riscriverne i canoni e a incrinarne le certezze risultando fresco, innovativo e divertente. Lo stesso non si può certo dire di The Possession del regista danese Ole Bornedal, noto ai più per essere il regista dell'apprezzatissimo Nightwatch e per essere stato tra i produttori del primo film americano di Guillermo del Toro, l’ottimo Mimic. Chiaramente ispiratosi a L’Esorcista, per sua stessa ammissione, e guidato da una storia vera piuttosto interessante che aveva colpito Sam Raimi - qui nelle vesti di produttore -, Bornedal si tuffa nell’ennesima vicenda di possessione diabolica. Negli anni si sono alternati demoni egizi, assiri, babilonesi, cattolici e pagani: ora tocca ad uno ebraico, anche se, a ben guardare, nemmeno questa scelta brilla per originalità, visto che solo pochi anni fa (2009) usciva sugli schermi Il mai nato, in cui il baobab era proprio un dybbuk, lo spaventoso spirito maligno che nella cultura ebraica vaga alla ricerca di un corpo in cui reincarnarsi. Secondo gli ebrei l’unica maniera per intrappolarne uno è di rinchiuderlo in una scatola, chiamata appunto “scatola dybbuk”, e sigillarlo lì per l’eternità. Durante una svendita, un misterioso contenitore finisce nelle mani della piccola Em (Natasha Calis), figlia minore di una coppia alle prese con la separazione. Assieme alla sorella Hannah (Madison Davenport), Em passa dalla vecchia casa di famiglia in cui vive la madre Stephanie (Kyra Sedgwick) e il suo nuovo compagno Brett (Grant Show), alla nuova casa di campagna del padre Clyde (Jeffrey Dean Morgan). Una notte Em apre la scatola e da quel momento perde progressivamente coscienza di sé diventando via via sempre più assente ed aggressiva fino a venire totalmente posseduta dal demone. Per cercare di salvarla Clyde ricorrerà all’aiuto dell’esorcista ebreo Matisyahu. Dal punto di vista formale non si può imputare nulla a The Possession, ben girato, discretamente recitato e con alcuni momenti visivamente spettacolari - come l’invasione di falene nella camera da letto di Em. Il problema è l’assoluta ripetitività degli schemi del genere che Bornedal segue pedissequamente rendendo l’intreccio altamente prevedibile per chiunque abbia anche solo una minima dimestichezza con pellicole del genere. Le voci sussurrate nel buio, la bambina dolce e mite che diventa sempre più violenta, la sua voce che cambia repentinamente tono, l’inutile ricorso alla medicina classica, l’arrivo dell’esorcista e la cerimonia di liberazione in cui il demone rivela tutta la sua potenza: un percorso già scritto in cui lo spettatore avvezzo si muove come nel soggiorno di casa, indovinando al secondo anche l’arrivo puntuale delle scene shock. E a risollevare le sorti della pellicola non servono certo alcune singolari scelte di sceneggiatura come la scomparsa - totalmente ignorata - dalle scene dell’inutile Brett, l’improvvisata riunione con i ministri del culto in moschea e il consueto finale aperto a cui ogni film dell’orrore paga tristemente pegno da almeno vent’anni. Un punto a favore: la possessione di Em può essere vista, e sicuramente Bornedal lo fa, come un’insolita ma efficace metafora del tormento interiore e delle enormi difficoltà di una ragazzina opressa dal tormento emotivo scatenato dalla separazione dei propri genitori. Detto questo, demoni di tutte le religioni del mondo, forse è arrivato il momento di lasciare in pace i bambini.