«Più che un film sui gangster, è un film sulla nostalgia di un determinato periodo» furono queste le parole che Sergio Leone utilizzò per descrivere il suo capolavoro C’era una volta in America, pellicola che oggi, grazie al circuito The Space, torna al cinema nella sua durata originale, quattro ore e diciannove minuti, con l’inserto di ventisei minuti di materiale inedito spalmato in sei blocchi narrativi. Rimaneggiato dallo stesso Leone in vista della presentazione a Cannes nel 1984, il film fu portato alla durata di circa tre ore e cinquanta. All’uscita sul mercato statunitense la pellicola fu ulteriormente mutilata, fino ad arrivare ad una durata complessiva di “sole” due ore e venti. Ci sono voluti ventotto anni, Martin Scorsese e l’opera dei laboratori de L’immagine ritrovata della Cineteca di Bologna per riportare uno dei maggiori capolavori della storia del cinema al suo stato naturale, così come lo aveva pensato lo stesso Leone. Un gruppo di piccoli delinquenti, sullo sfondo degli anni ’20, tentano di appropriarsi del Lower East Side, uno dei quartieri ebraici di New York. Capeggiati da Noodles e Max, i ragazzini si muovono con l’incoscienza tipica dell'età, in un mondo corrotto e pericoloso del quale però conoscono le regole, perché loro in quel mondo ci sono nati e cresciuti. Passano gli anni, e quei bambini un po’ impacciati ma determinati diventano gangster, sempre capitanati da Noodles (Robert De Niro) e Max (James Woods). Nell’arco di quarant’anni, dagli anni venti al proibizionismo, fino agli anni ’60, attraverso l’evoluzione e la decadenza di una figura iconografica americana come quella del gangster, Leone parla al suo pubblico di cinema, inteso non solo come intrattenimento, ma piuttosto come arte totale, in grado di accomunare tutti coloro che, come lui, erano cinefili prima che addetti ai lavori – in questo senso è impossibile non citare tutta la lunga sequenza della nursery che sembra un chiaro omaggio ad Arancia Meccanica di Kubrick. Più che un film, l'opera del regista romano rappresenta un’esperienza sensoriale, una sorta di ipnosi cinematografica dove a guidare lo spettatore ci sono le note indimenticabili di Ennio Morricone: passato e presente si fondono in un valzer anacronistico che non mira a raccontare una storia nella sua linearità, quanto piuttosto a descrivere l’esistenza di un uomo, Noodles, incapace di vivere il suo tempo. Il personaggio di De Niro è proiettato al futuro quando è ancora bambino, fuori tempo quando si muove sicuro tra i vicoli di New York, e quasi abbandonato a se stesso quando si riscopre anziano e quando, al tempo stesso, comprende la propria essenza di uomo. La mano - sempre estremamente riconoscibile - di Leone porta ai massimi livelli tutta la sua poetica, fatta di campi lunghi contrapposti a quei primi piani invadenti che sembrano voler scendere sottopelle ai suoi personaggi. Il tutto ammantato dalla brutale violenza che il regista non ha mai risparmiato ai suoi spettatori: accusato di elogiare la violenza come metodo di vita, Leone al contrario sembra interessato a scivolare nelle spire del dolore umano, a sottolineare la consapevolezza che la vita stessa è fatta di dolore. E in C’era una volta in America è una componente stessa del racconto, un elemento imprescindibile che se da una parte è facilmente riscontrabile in scene visive sconvolgenti – come quella dello stupro – dall’altra si nasconde negli occhi stanchi di un Noodles che vuol rifiutare le leggi e le regole che lui stesso, in un certo senso, ha contribuito a creare. Tratto dall’autobiografia The Hoods di Herry Gray (pseudonimo di David Aaronson) e pubblicato da Longanesi con il titolo Mano Armata, C’era una volta in America è un film che nella sua imperfezione, nel suo elevarsi a emanazione della nostalgia di un mondo sempre inseguito e sempre amato, si tinge, anche nei suoi eccessi di violenza votati al realismo, di un dolente anelito poetico. Un capolavoro nella storia del cinema.