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Frankenweenie

23/10/2012 11:00

Giuseppe Salvo

Recensione Film,

Frankenweenie

Tim Burton torna a regalare magia al cinema, in un bianco e nero gotico

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Appena dopo La Fabbrica di Cioccolato, remake del caramelloso musical del 1971, che dietro la vivace policromia celava ombre dickensiane e che non godette di quell’unanimità di consensi riservata sovente al regista di Burbank, usciva La Sposa Cadavere, apoteosi stilistica dell’animazione in stop motion, adorabile compendio di tematiche che ciclicamente affastellano la filmografia burtoniana accavallandosi, rincorrendosi, stringendosi in abbracci struggenti. Come nel 2005, Frankenweenie accompagna in coda l’uscita di un’altra pellicola – Dark Shadows - non pienamente apprezzata dal pubblico ma artisticamente riconciliante, che come nel vampirizzante e funambolico epilogo, trascinava, insieme ai protagonisti Depp e Heathcote a picco sulle scogliere di un amore eterno, il suo regista ad una più connaturata dimensione espressiva. La sinfonia trascritta da Tim Burton ed intonata dai suoi cerei e lividi interpreti, in fondo, appartiene sempre ad uno stesso spartito, un unico spiegato pentagramma che affonda le radici nella letteratura gotica ottocentesca, e ramifica, traendo linfa vitale e mortale, dal cinema dell’orrore degli anni venti e trenta, contorcendosi nella primordiale effettistica dei generi fantastico e fantascientifico.


Victor Frankenstein è un bambino che coltiva la passione per lo studio e per la fantascienza, inclinazioni che lo portano lontano dalle normali attività degli altri bambini, con i quali infatti non riesce a socializzare. L’unico amico che vorrebbe avere sempre con sé è Sparky, il vivace e affettuoso bull terrier che vive in casa Frankenstein. Ma quando l’inseparabile compagno di giochi viene investito da un auto, Victor, incapace di rassegnarsi alla morte del suo unico vero amico, progetta, ispirato dal professore di scienze, di riportarlo in vita attraverso l’utilizzo di scariche elettriche. Ma il bambino non riuscirà per molto a tenere nascosto il successo del suo esperimento, e i suoi compagni di classe faranno a gara per conoscere il modo di varcare il confine biologico tra la vita e la morte, e utilizzarlo per vincere il concorso di scienze della scuola. Nessuno di loro però è spinto dalla nobile motivazione e dagli stessi sentimenti di Victor, e anche gli esiti saranno destinati a sfuggire dal controllo degli invidiosi e ambiziosi bambini.


In bianco e nero nasce la magia del cinema; in esso l’espressionismo e gli horror degli anni trenta scavano portando alla luce, dal buio pesto dell’orrore, un delirante universo di eccessi visivi. In quel vibrante e fulgente sentiero incolore, il confine che separa le ombre dalle luci si perde fra le cupe, variegate, immortali sfumature di grigio: un contrasto che ricalca quello della vita con la morte, sulla cui linea di demarcazione giace ed opera l’amore, con tutte le sfumature e le sue rampe, capace di allungare il regno della vita su quello della morte, o al contrario di anticipare il tempo dell’ultimo respiro accorciando la fugacità del vivere. Esclusi i primi corti degli esordi con la Disney, nel lungometraggio, l’unica volta che Burton si affidò alla potenza dello spazio visivo monocromatico fu per raccontare la delirante epopea di Edward D. Wood Jr., nel quale il fantomatico incontro tra il peggiore – Wood – e il migliore regista di tutti i tempi – Orson Welles – mentre condividono frustrazioni e fallimenti comuni a tutti i registi di ogni epoca e talento, si fa, oltre che atto d’amore incondizionato, specchio metafilmico della macchina produttiva cinematografica. Se Ed Wood rappresenta il capolavoro più adulto, Frankenweenie è l’opera dei recessi infantili, dei sogni che piegano la realtà, delle memorie visive e delle sperdute – ma mai definitivamente perdute – fantasticherie di incanti ad occhi aperti.


Ancora una volta Burton trova, nell’animazione a passo uno, il suo più congeniale filtro espressivo, ancestrale ed esoterico tramite della sua filmografia attraverso il quale collegare mondi diversi – i vivi con i morti, l’immaginazione infantile con l’oblio degli adulti, la lugubre ricorrenza di Halloween con la gioiosa festività del Natale – altrimenti inconciliabili. Le principali intuizioni di Frankenweenie appartengono al cortometraggio originale del 1984 – la rilettura in chiave fanciullesca del mito creato da Mary Shelley e dei relativi adattamenti cinematografici, con tutti i paradigmi e i luoghi d’appartenenza, dalla soffitta dell’esperimento, al mostro in fuga rincorso dagli abitanti indignati, fino al mulino in fiamme del finale – ma approfondite con un più alto impeto emotivo e visivo. A queste se ne aggiungono altre, che legano al gusto citazionista burtoniano alcuni momenti di puro e ludico divertissement cinefilo. L’eclettica visionarietà compositiva di Danny Elfman, infine, trasfonde le evoluzioni e i sussulti gotici delle partiture di Batman e i funerei organi à la Beetlejuice alla delicatezza lirica de La Sposa Cadavere, risolvendoli in meravigliosi climax sonori. Non è così arduo rintracciare le orme del piccolo Burton nei sentieri percorsi dai protagonisti della sua cinematografia, in quelle tracce che si disperdono per sepolcri e cenotafi lovecraftiani, atmosfere e amenità figlie di La moglie di Frankenstein e Il Risveglio del Dinosauro, e quell’universo immaginifico di fanciulli - a metà fra i precoci derelitti di The Melanchony Death of Oyster Boy & Other Stories e i mostri dei classici Universal - sospinti dall’irrefrenabile forza infantile dei sentimenti per volgere la realtà a finali ben più accettabili. Al regista di Burbank, come Vincent, Charlie, Willy, Jack, Edward e Victor, affidiamo, con la sicurezza con cui ci si abbandona all’accogliente alcova dei ricordi, la mano del bambino irrisolto che ognuno porta dentro di sé.


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