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Marfa Girl

20/11/2012 11:00

Erika Pomella

Recensione Film,

Marfa Girl

Vincitore del Marc’Aurelio d’oro per il miglior film in competizione alla 7° edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, Marfa Girl è il quinto film

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Vincitore del Marc’Aurelio d’oro per il miglior film in competizione alla 7° edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, Marfa Girl è il quinto film del regista Larry Clark, che ha esordito nel mondo dell’arte nelle vesti di fotografo provocatorio. Dagli anni settanta in poi ha cercato di raccontare la realtà dei giovani di Tulsa attraverso immagini che ne documentassero l’abuso di sesso, droga e corse contro la legge. Con questa pellicola la poetica del regista trova un’ulteriore valvola di sfogo.


Marfa è una cittadina del Texas sul confine col deserto: nonostante l’aria torrida che vi si respira, Marfa è anche un centro alternativo, luogo d’incontro fra artisti e scrittori. Una cittadina dove il confine tra messicani e bianchi si fonde di continuo, costringendo i ragazzini a rispettare un coprifuoco. Qui vive Adam (Adam Mediano), un ragazzo meticcio di sedici anni alla scoperta delle prime esperienze sessuali, con la ragazza di nome Inez (Mercedes Maxwell) e l’amante, Donna (Indigo Rael), fidanzata con un uomo in prigione. Adam, però, insieme a sua madre Mary (Mary Farley), è anche l’oggetto di attenzioni ossessive da parte di Tom (Jeremy St. James), un poliziotto disturbato, razzista e potenzialmente maniaco. Intorno a loro si muove una galleria di personaggi allucinati, come la guaritrice che usa i toni acuti della voce per curare dei malanni fisici e spirituali, e la marfa girl (Drake Burnette), una pittrice arrivata in città per seguire un corso d’arte e dare sfogo alla sua filosofia sul sesso libero.


Nelle intenzioni il film di Clark si vorrebbe presentare non solo come racconto di formazione sessuale di un giovane adolescente, ma anche come il ritratto verosimile di un contesto culturale in continuo divenire. La terra di confine rappresentata da Marfa, in questo senso, ben si sposa con le caratteristiche meticcie di Adam, che lo rendono un borderline ad hoc, impossibilitato a far parte di un’etnia senza includere anche l’altra. Tutto questo, però, che almeno in teoria avrebbe potuto interessare o quanto meno disturbare lo spettatore scivola nel dimenticatoio a favore di lunghi e lisergici dialoghi che non portano a niente e che non svelano altro se non la tensione della donna senza nome che dispensa storie e rapporti occasionali, con l’approvazione di un padre hippie. Vero e indiscusso protagonista della pellicola, il sesso è però rappresentato da Clark con un moralismo che appare senz’altro fuori luogo. Tutti i personaggi, ossessionati e persi in storie dai contorni confusi, sono rappresentati come bloccati nella propria condizione. Il sesso libero, ostentato e forse rincorso, che Clark vuol rappresentare si riduce alla fine ad una condanna dello stesso: lungi dall’essere emblema della libertà individuale, i corpi messi in scena sembrano più che altro manichini ben vestiti, gusci vuoti, riempiti solo di quei liquidi corporali utili a espletare le funzioni biologiche. A questa confusione di idee e intenzioni si aggiunge una sceneggiatura caotica, accartocciata su se stessa, incapace di stare dietro ai suoi protagonisti. Lo spettatore deve assistere allora a dimenticanze plateali, a vuoti di scrittura, a caotici salti mortali che finiscono per annoiare laddove avrebbero potuto creare la condizione minima per poter parlare di cinema.


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