Con il personaggio di Roman, Alessandro Gassman è stato in tournèe nei teatri d’Italia per quasi tre anni. Adattamento italiano della pièce Cuba and his Teddy Bear di Rienaldo Povod, con la storia di un difficile rapporto padre-figlio, Gassman ha vinto il premio UBU 2010 e il Premio Flaiano. Oggi quella storia diventa un lungometraggio d’esordio, presentato al in anteprima al 7° Festival del Cinema di Roma. Roman (Alessandro Gassman) è arrivato in Italia dalla Romania trent’anni fa. Da allora la sua vita, fatta di spaccio e piccola criminalità, è interamente votata a dare un futuro migliore al suo amato figlio Nicu (Giovanni Anzaldo), che proverà con tutte le forze a difendere dalla più spietata periferia romana e dalle cattive amicizie – prima fra tutte lo spacciatore Talebano (Sergio Meogrossi). Dal canto suo Nicu, rumeno di sangue ma italiano per scelta, dovrà decidere presto se abbandonare l’ingombrante padre e, una volta tradito, cosa fare della sua vita. Nel raccontare la storia di un padre focoso, invadente e buono di cuore, che nelle grigie periferie romane tenta come può di proteggere il figlio da un mondo infido, si percepisce come Alessandro Gassman abbia messo tutte le sue migliori intenzioni, anni di onorata carriera sul palco e un evidente trasporto emotivo. Il risultato è un film fuori dal comune, coraggioso, che stupirebbe anche se non fosse italiano. Razzabastarda è visibilmente un prodotto di derivazione teatrale: Gassman non può evitare di far notare l'evidente fusione tra la propria formazione scenica e una certa tradizione cinematografica esterofila. I riferimenti del film vanno da Kassovitz a Larry Clark, registi che hanno ispirato non solo le atmosfere cupe ma anche lo straniante bianco e nero, sporco ed imperfetto, risultato della fotografia di Federico Schlatter. Anche la macchina da presa, che riprende sempre leggermente dal basso verso l’alto, partecipa ad una consapevole operazione di distorsione della realtà e al tempo stesso consente una resa grezza e spietata dell’immagine. Dove la teatralità del film di Gassman si manifesta pienamente è nel rapporto tra gli attori e il set. Razzabastarda è un film intensamente recitato, decisamente eccessivo nella sua fisicità. Il pubblico abituato alla recitazione sopra le righe di Gassman non ne sarà deluso, ma si stupirà comunque nel vederlo interpretare la parte del rumeno con disinvoltura e una connaturata foga, che rischia, nei momenti più strillati, di precipitare nello stereotipo. Attorno a lui un ottimo cast in parte recuperato dallo spettacolo teatrale, in parte arricchito di nuove presenze come l’incantevole Madalina Ghenea, o di cammei come quelli di Michele Placido e di una ritrovata Nadia Rinaldi. Tra i protagonisti, accanto al giovane e bravissimo Anzaldo, sono ottime le interpretazioni di Matteo Taranto, nei credibili panni di Dragos, lunatico gestore rumeno di un night club a luci rosse, Manrico Gammarota, in quelli di Geco, il divertente “socio” di Roman – personaggio che consente a tratti di sviare il tono drammatico su dialoghi da commedia. Di contro, ad un esordio registico più che apprezzabile, si accompagnano alcune inspiegabili cadute di stile come il lungo flashback della zingara, non solo del tutto irrilevante ai fini del racconto ma anche pienamente kitch, o il sogno di Nicu, uno slancio lirico davvero poco riuscito. La rappresentazione complessiva di un mondo di emarginazione, squallido, violento e malvagio, risulta formalmente e contenutisticamente riuscita. Così come l’insistenza sull’opposizione padre/figlio, due mondi e due paesi (Romania e Italia) a confronto, in un rapporto conflittuale, virile e commovente. Eppure qualcosa di irrisolto rimane: primo fra tutti il finale, quasi inverosimile, che aggiunge e non conclude, una bella soluzione stilistica e un’intenzione lasciata a metà.