Itaker è l'appellativo che molti italiani emigrati in Germania si sono visti sputare addosso: un epiteto offensivo, che si può tradurre con "italianacci" che poco si sposa con l'immagine che il regista Toni Trupia fornisce dei suoi emigrati nel film Itaker - Vietato agli italiani. Una pellicola che esplora la condizione di quegli uomini che furono costretti a lasciare il proprio paese natio negli anni del primo boom economico post-bellico. Pietro (Tiziano Talarico) è un bambino rimasto orfano di madre. L'unico parente ancora in vita, suo padre, è emigrato anni prima in Germania, e di lui si sono perse le tracce. L'unico che sembra sapere qualcosa è Benito (Francesco Scianna) che si fa carico del ragazzino, accompagnandolo oltre i confini nazionali. Una volta giunto a destinazione, però, Benito ha un'amara sorpresa: scopre che il padre di Pietro, a seguito di alcuni problemi con la polizia, ha cambiato cognome. Diventa così suo compito sgradito prendersi cura del bambino, mentre riallaccia i rapporti con una gang mafiosa guidata da Pantanò (Michele Palcido) di cui fa parte anche la bella Doina (Monica Birladeanu). Nel contesto socio-culturale in cui l'Italia si trova ad annaspare, al giorno d'oggi è diventato quasi un luogo comune paragonare l'esodo dei tanti extracomunitari dell'est con quanto avveniva a inizio secolo per tutti gli italiani che cercavano fortuna in paesi stranieri, spesso oltreoceano. Il cinema, negli anni, ha letto e approfondito questo specifico momento storico della storia nazionale italiana: da Il Padrino a Nuovomondo, sono molte le pellicole che hanno focalizzato la propria attenzione su quei flussi migratori di esseri umani. Meno approfondita è rimasta la seconda ondata di questo movimento, avvenuta in un periodo che, quanto a memoria storica, rimanda l'immagine di un paese finalmente stabile. Toni Trupia, regista classe 1969, ambienta il film all’inizio degli anni ’60, incentrandolo proprio sulla figura di un giovane napoletano che cerca fortuna in Germania. Lungi dall’essere un film simbolo di un’epoca o di un preciso momento storico, tuttavia, Itaker è una storia profondamente umana, dove a farla da padrone sono i personaggi messi in scena, con le loro storie e le loro speranze. Pietro e Francesco non hanno più radici, abbandonati ai capricci del fato, due esistenze che cercano l’uno nell’altro l’ancora della propria salvezza. Debuttante sul grande schermo, il piccolo Tiziano Talarico cela negli occhi la paura di essere abbandonato di nuovo e cerca in Benito una paternità delegata, un’accettazione che in un primo momento sembrava impossibile. Dall’altra parte, Benito è un uomo con grandi ambizioni e progetti, che però non riesce a raggiungere nulla di concreto, neanche sporcandosi le mani. Intorno a questi due microcosmi in simbiosi continua, Trupia, aiutato da un’ottima sceneggiatura cui ha collaborato anche Placido, inserisce una galleria di personaggi grigi come la fabbrica nella quale vivono. Persone che hanno lasciato alle proprie spalle la famiglia per cui continuano a lavorare, uomini soli in cerca solo di calore umano. In questa discesa nell’individualità di ogni personaggio si nasconde l’aspetto più emozionante di una pellicola dall’estetica prepotentemente riconoscibile, fatta di toni freddi e tetri, avvolta nelle spire fuligginose di ciminiere che tagliano il paesaggio, rendendolo simile ad una prigione dalla quale nessun personaggio, suo malgrado, può scappare.