Esiste un solco profondo che scava nella storia moderna degli Stati Uniti d’America e che contribuisce a rendere la prima potenza mondiale un terreno iconografico universalmente riconoscibile. L’epoca del proibizionismo americano - che rendeva di fatto molto remunerativo lo spaccio clandestino di alcolici – è lo sfondo che lo scrittore Matt Bondurant descrive con perizia di particolari nel libro La contea più fradicia del mondo, dove racconta le gesta del nonno Jack e dei prozii Forrest ed Howard, tre fratelli che costruirono, a Franklyn, in Virginia, la più grande distilleria clandestina della contea. John Hillcoat, regista che ha sconvolto il pubblico con la sua trasposizione di The Road, recupera questa storia e, dopo la presentazione in anteprima allo scorso Festival di Cannes, è pronto a sbarcare sui grandi schermi di tutto il mondo. Howard (Jason Clarke) è il maggiore di tre fratelli: suo il merito di aver diffuso la leggenda secondo cui i Bondurant sono impossibili da uccidere. Sopravvissuto per miracolo alla Grande Guerra, Howard passa le sue giornate a bere per dimenticare gli incubi, aiutando nel frattempo il fratello nella gestione degli affari. Forrest (Tom Hardy), che da bambino è sopravvissuto alla febbre spagnola, è il vero leader della famiglia. Con una calma innaturale e un vocabolario che sembra includere solo pochi monosillabi, Forrest guida la produzione del whisky e la sua vendita, mentre gestisce anche un bar, con l’aiuto dell’ultima arrivata Maggie (Jessica Chanstain). Il più piccolo dei tre, Jack (Shia LeBoeuf), sentendosi messo in ombra dalla popolarità dei fratelli maggiori, inizia una sua propria attività di distillazione clandestina con l’amico Cricket (Dane DeHaan). In poco tempo Jack riesce a ricavare guadagni da capogiro, anche grazie agli accordi con Floyd Banner (Gary Oldman). Ma l’eccessiva fiducia in se stesso e l’arrivo dell’agente speciale Rakes (Guy Pearce) rischieranno di far crollare tutti i sogni del giovane. Ganster-movie canonico che basa il suo successo su un cast capace di mettere in ombra la mano autorevole di un regista come Hillcoat. Le lunghe inquadrature di un mondo dai toni seppiati, di un tempo immortalato nella leggenda, servono solo da fondale per un universo diegetico dove sono i protagonisti a farla da padroni. Jason Clarke, proprio come Howard, sembra costretto a ripiegare su se stesso per via della personalità degli altri: Tom Hardy conferma il suo incredibile talento, presentandosi nuovamente alla macchina da presa in una stazza monumentale che ne sfregia la bellezza, ma che lo rende il vero punto di fuga dello sguardo spettatoriale, a cui si aggiunge un’empatia inevitabile grazie all’uso sapiente di una buona dose di ironia; il giovane LeBoeuf, con il volto sorridente e ingenuo, rende perfettamente l’immagine del bambino viziato che vuole raggiungere obiettivi al di fuori della propria portata, pressochè incapace di pagare le conseguenze delle sue azioni. La vera menzione d’onore spetta a un Guy Pearce unto e glabro, maschera inquietante e spietata di un tutore della legge che sembra essere uscito dal miglior Friedkin. La chimica tra i personaggi è così perfettamente calibrata, che tutto il resto della messa in scena sembra sparire dietro una cortina di vapore. Si farebbe tuttavia uno sbaglio a non riconoscere in Lawless l’apporto dato dalla mano sapiente di Hillcoat. Pur lontano dagli apici toccati dalla bolgia infernale di The Road, il regista de La proposta, rappresenta un mondo dove la legge del taglione sembra ancora l’unica in vigore: un gagster-movie che alle strade bagnate delle grandi città sostituisce i profili verdeggianti di una campagna piena di insidie. Lunghe scene di violenza – mai gratuita – arricchiscono lo spettacolo innalzando picchi di tensione che altrimenti avrebbero latitato lungo una narrazione ben recitata, ma privata di quella profondità psicologica che poteva lasciare un segno ben più indelebile.