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24/11/2012 12:00

Giuseppe Salvo

Recensione Film,

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Quando si parla di fotografia come medium comunicativo, emotivo e artistico, si pensa al suo potere fissativo, di ancoraggio, della dimensione del passato e deg

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Quando si parla di fotografia come medium comunicativo, emotivo e artistico, si pensa al suo potere fissativo, di ancoraggio, della dimensione del passato e degli innumerevoli istanti che lo attraversano, in una sospensione mnemonica fluttuante, rigorosa nella congelata irripetibilità dell’attimo, eppure varco che trascende la propria fisicità per unirsi e sobbalzare in stretta simbiosi con gli aneliti nostalgici o le amare cicatrici del ricordo. Fisionomia dei frammenti di un secondo incorniciata per sempre, in cui presenza e assenza si fondono e si distendono colmando quella profondità di campo che è lo scorrere del tempo, che è la distanza, che è metafisica della memoria. Così come l’amore e la verità, nel loro rincorrersi e concedersi per poi rifuggire, sono soliti lasciare uno scarto di svantaggio alle incertezze del presente.


Elisa (Anna Mouglalis) torna in Francia per dare l’estremo saluto alla madre appena morta. Senza aver lasciato alcun avviso al fidanzato, che la attende impaziente in Italia, la donna approfitta del distacco dalla routine per fuggire dalle oppressioni della relazione di coppia e per ricongiungere i pezzi di un passato annebbiato dai pessimi rapporti familiari. Mentre fruga tra gli oggetti materni, Elisa scova un mucchio di vecchie foto risalenti al periodo precedente alla sua nascita, che oltre a ricordarle la gemellare somiglianza con la madre, gettano pesanti ombre sul suo vero padre. Quest’ultimo potrebbe non essere colui che l’ha cresciuta e amata in tutti questi anni, ma un ragazzo amato dalla madre poco prima della gravidanza, e misteriosamente scomparso durante le sommosse della Rivoluzione dei Garofani. Elisa si mette allora alla ricerca dei compagni di gioventù materni cercando di recuperare e rimettere insieme i fumosi tasselli delle proprie origini.


Lo scrittore e sceneggiatore Carlos Saboga esordisce alla regia cinematografica con una storia di legami, intrecciando in maniera più o meno disinvolta e omogenea l’attaccamento paterno nei confronti dei figli, la fisiognomica eredità genitoriale, il flusso perenne fra l’ieri e l’oggi, il confine tra possesso e perdita, tra menzogna e verità, tra rivoluzione giovanile e reazione senile. Il mezzo fotografico - come filtro significante e metaforico, più che come vero e proprio strumento analitico – si adatta istintivamente ad incarnare la ricerca del padre. Come nella selezione compositiva adottata al momento dello scatto, ogni scelta quotidiana cela in grembo una rinuncia, ogni avvicinamento presuppone sempre un allontanamento, e quel che si imprime nella cornice dei ricordi, tutto ciò che si decide di includere all’interno dell’inquadratura esclude irrimediabilmente tutto il resto, dettagli, espressioni, movenze, sfumature, possibilità perdute per sempre. Nella labile illusione di risolvere le frustranti contraddizioni del presente semplicemente guardando dietro – e non dentro - di sé, che conduce la protagonista ad un beffardo crocevia, Saboga nasconde il bisogno di espiare le contraddizioni di un’epoca. Ma ogni immagine del passato che guardiamo, che osserviamo, nell’istante in cui afferma la propria aderenza agli attimi tangibili e riconducibili di una storia, conferma in egual misura la sua connaturata assenza, la sua incolmabile distanza. Sotto gli uggiosi lucori parigini e lusitani, il regista dispiega allora un viaggio interiore lungo epidermici retaggi generazionali e pregressi dissapori storicistici – l’autore venne esiliato dal Portogallo durante il regime Salazar – disseminando instabili e sinuose tracce muliebri che lo sguardo della camera asseconda soffusamente e con porosa dedizione, attratto dal magnetismo della sua ombrosa, scontrosa e vulnerabile protagonista.


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