Per quasi cinquant’anni ha rappresentato una scheggia anomala del cinema italiano, come un saltimbanco in grado di balzare da un film all’altro con la stessa precarietà di un funambolo. Un’instabilità che si portò dietro dalle povere condizioni della nascita, prendendo parte, esordiente, alla sgangherata banda di ignoti monicelliani, attraversando la nascitura commedia all’italiana degli anni sessanta, quella decamerotica dei settanta, fino ai più grotteschi tentativi ridanciani degli anni ottanta e i flebili sussulti dell'ultimo ventennio di vita. Sempre con l’espressione imperturbabile di chi, smilzo, logoro, sdrucito o incalzato, resta imperturbabile a lanciare occhiate di solennità dall’alto in basso, forte di un orgoglio umile, scanzonato, noncurante del tempo che scorre e di un mondo che ruota veloce come un battito di ciglia. 155 film girati, innumerevoli set calcati, comparsate e apparizioni nel cinema così come nel teatro e in televisione, ma sempre un unico carattere incarnato e al quale votare la propria carriera. La vita di Tiberio Murgia avanza i primi passi nella miseria di una famiglia sarda di Oristano, scoperto e scelto a Roma da Mario Monicelli per interpretare il ruolo di Ferribotte ne I Soliti Ignoti, e da allora, maschera dello stereotipo siciliano fiero e geloso, maschio tutto onore e ossequi, figlio della mentalità retrograda e patriarcale dell’Italia meridionale postbellica. Un’esistenza in bilico, tra realtà e finzione – un sardo che non ha quasi mai recitato con la propria voce ma sempre doppiato per riprodurre l’accento siciliano –, tra personaggio pubblico e privato, nelle caratterizzazioni cinematografiche così come nella vita perennemente soggiogato dal fascino femminile, in fuga da letti extraconiugali, vacillante tra seduzioni e abbandoni, tra figli riconosciuti e amori illegittimi. Una vita acrobatica, per l’appunto, raccontata con occhio empatico e affettuoso, senza rinunciare tuttavia alle sferzate dei figli o di chi ne conosceva molto bene la natura scriteriata e povera di regole. La dimensione temporale del documentario di Sergio Naitza è quella del presente, e più precisamente, dei giorni dell’intervista di Murgia girata a pochi mesi dalla sua scomparsa nel 2010: un racconto che fiorisce in parole visive come un germoglio sopravvissuto alla cultura obliante del mondo contemporaneo. A dispetto di un presente che dimentica, che perde ogni giorno ancoraggio con la propria storia, vi è un passato in bianco e nero che non scolora, e riprende vita attraverso ricordi, vicende di errori e malinconie, sguardi intirizziti e nostalgici rivolti da una parte ai tragicomici aneddoti di una vita consacrata all’amore per le donne, dall’altra all’epoca di transizione del cinema italiano che sfilava sul meraviglioso sfondo della Hollywood romana e del boom economico, finendo per sfilacciarsi nello spaesamento e nei vuoti contenutistici dei decenni a venire. L’insolito ignoto prende le sembianze macchiettistiche di Tiberio Murgia, per raccogliere attraverso le dita artritiche del suo protagonista, manciate di scorie mnemoniche, reminescenze spurie e sotterranee, enfatizzando il ruolo salvifico della memoria in un mondo, come quello cinematografico, che a fari spenti e sipario calato, oscura anche la visibilità dei suoi commedianti e comprimari.