
La sala d'attesa di un ospedale, un muro di piastrelle bianche, una panchina. Una ragazza dai capelli rossi, Katia (Karolina Gruszka), ballerina di Mosca, riceve da un'amica la notizia della morte di sua madre. Ma non riesce a provare nessuna emozione. Si dispiega invece il racconto estasiato e appassionato dell'incontro con Andrej (Igor Gordin), l'uomo di cui è innamorata e che la ama a sua volta, dopo averla vista danzare una seducente coreografia da lei inventata durante un viaggio in India. Inizia così il Film 1 de La Danza di Delhi, ultimo sperimentale lavoro di Ivan Vyrypaev, composto da sette brevi corti assemblati in un'opera unica. Drammaturgo, attore, premiato dalla Presidenza del Consiglio per il contributo alla letteratura russa, numerose sceneggiature teatrali in attivo e un debutto cinematografico, Eyforiya presentato in concorso al Festival del Cinema di Venezia nel 2006. Vyrypaev presenta una pellicola estremamente interessante da un punto di vista di sperimentazione artistica, ma davvero poco cinematografica e apparentemente lontanissima dalle dinamiche della distribuzione. Nei sette corti che compongono il film, viene narrato di fatto lo stesso episodio: la seducente Delhi Dance e il suo effetto su chi la realizza o vi assiste, una danza talmente bella da far dimenticare ad ognuno di essere colpevole di qualcosa. E il racconto della Danza di Delhi avviene per sette volte, ma dal diverso punto di vista dei cinque personaggi: la protagonista, la ballerina Katia, la sua amica critica d'arte, Andrej, l'uomo amato, l'ostile madre di Katia e la timida infermiera. Il Film 2 si riaggancia a quanto raccontato dal precedente frammento ma il tempo sembra andare all'indietro, o in avanti, e adesso chi aspetta di ricevere la notizia della morte di qualcuno non è più Katia, non è più la sua amica a comunicarla, e Andrej non è più innamorato. E man mano che i corti terminano, nuovi dettagli e nuove angolature si aggiungono, emergono temi universali e complessi, che diventano oggetto delle fitte conversazioni dei protagonisti. L'amore, la morte, la sofferenza, la paura, l'arte, l'esistenza stessa, sono i temi che affollano le affascinanti elucubrazioni - al limite tra estetica, metafisica e pura speculazione filosofica - che i cinque personaggi intrattengono, partendo proprio col disquisire della più celebre forma d'arte russa: la danza. Soprattutto, però, al centro delle intense dissertazioni c'è un intenso confrontarsi di idee, emozioni, concetti di difficile approccio, come l'infelicità o la passione. E ovviamente, come da degna tradizione dell'assurdo, vi sono anche momenti non-sense, in cui la conversazione vira verso il comico come per il lungo esilarante monologo del medico-cancro (ossia del medico crostaceo). Il punto di fuga di questo spettacolo del sentimento non può essere delineato che dagli attori, magnetici protagonisti di una riuscita rappresentazione teatrale su schermo. Trattandosi di un “dialogo” filosofico, la pellicola è per lo più un susseguirsi di campi e controcampi, primi piani e totali, sempre sugli interpreti e sulla scenografia povera, composta dei pochi elementi della panca e del muro bianco. Nonostante l'inserzione di tecniche visive relativamente moderne (il ralenti, lo sfocato) e di una colonna sonora brillante, sin dalla prima inquadratura si ha l'impressione di trovarsi calati in un'atmosfera fortemente teatrale. La Danza di Delhi è un prodotto che non può prescindere dalla firma di Vyrypaev, oltre che dalla più colta tradizione drammaturgica russa, caratterizzata da una verbosità stordente, un'atemporalità diffusa e da situazioni vagamente surreali.