
Wadjda (Waad Mohammed) è una ragazzina di dieci anni che vive nella periferia di Riyadh. Piena di entusiasmo per la vita e tutt'altro che accondiscente alle molte regole che in Arabia Saudita schiacciano la personalità femminile, Wadjda è già una piccola anticonformista: si rifiuta di imparare a memoria il Corano, appena può evita di mettere il velo, ascolta musica rock, e sogna di vedere il proprio nome nell'albero genealogico dove sono scritti solo i nomi maschili. Ma la svolta arriva quando, dopo una discussione con il migliore amico Abdullah (Abdullrahman Al Gohani), la ragazzina decide di prendere parte ad una gara di bicicletta. Wadjda si innamora perdutamente di un velocipede verde, ma il prezzo della bici è proibitivo. Tuttavia, pur di averla, Wadjda decide di prendere parte ad una competizione religiosa il cui premio consiste nella somma di denaro che le serve. Combattendo contro le viete regole del suo paese e contro una preside molto ligia al dovere, Wadjda cercherà in ogni modo di realizzare non solo il suo sogno, ma la sua stessa identità come essere umano. Al suo primo lungometraggio di finzione, dopo due cortometraggi e un documentario - Women Without Shadows - che già analizzava la condizione delle donne in Arabia Saudita, Haifaa Al Mansour dirige una favola dai colori ocra su una bambina alla ricerca di se stessa e contro le imposizioni della società . Attraverso gli occhi innocenti di una bambina di dieci anni, Al Mansour trova la via privilegiata per parlare al grande pubblico dello stato in cui le donne saudite sono costrette a vivere, e che le vuole ancora assoggettate e prive di moltissime forme di libertà che, in Occidente, nel ventunesimo secolo vengono date per scontate. Wadjda, però, è una pellicola che non veste i panni da giudice, né da moralista, non ci sono assiomi politicheggianti, né inni alla religione. Il j'accuse di Al Mansour passa attraverso la storia incantevole di una bambina e della sua bicicletta. È grazie al desiderio spasmodico della piccola Wadjda che uno spettatore non avvezzo alla condizione dell'Arabia Saudita può lasciarsi commuovere dall'aspirazione della piccola protagonista di essere libera, di scegliere chi diventare e cosa fare della propria vita. Grazie ad un tocco di ironia che non arriva mai a diventare sarcastico, la regista riesce a mettere in dubbio quelle stesse regole che l'hanno cresciuta, dando così al pubblico l'illusione di poter scegliere da che parte stare. Un gioco, questo, che non è altro che un trucco ottico: il pubblico è dalla parte di Wadjda dopo pochissimi istanti di visione, soprattutto grazie all'interpretazione della giovanissima Waad Mohammed, che riesce a trasmettere un ampio spettro d'emozioni attraverso uno sguardo pieno di meraviglia e di arguzia. La vera protagonista della pellicola, tuttavia, è da ricercarsi proprio nella bicicletta tanto agognata, che diventa, man mano che la storia avanza, il totem di una condizione in divenire. Se, da una parte, essa rappresenta il simbolo di un'infanzia spensierata alla quale Wadjda non vuole rinunciare, dall'altra finisce con il diventare l'oggetto simbolo di una trasformazione che, partendo dal microcosmo infantile mira a diventare universale. Correre in una competizione sulla sua fiammante bicicletta verde, e gareggiare contro Abdullah, oltre che un gioco, si erge ad emblema dell'aspirazione alla parità dei sessi, in un mondo dove una donna può essere inserita nell'albero genealogico ed essere anche tifosa di calcio, se lo vuole.