Nel mondo del cinema sembra esistere una regola non scritta secondo cui la qualità di un sequel non è mai paragonabile a quella della prima pellicola. Dopo aver riscritto le leggi della messinscena fantasy, Peter Jackson mira a sfatare questo falso mito con Le due torri, secondo capitolo della saga letteraria firmata da Tolkien e di prodotto filmico molto più completo ed epico rispetto al suo predecessore. Dopo la scomparsa di Gandalf e la struggente morte di Boromir, tutto quello che rimane della coraggiosa compagnia dell’anello è un intricato gioco di resistenze sfilacciate. Divisi, meno numerosi della compagnia unitaria che partì da Gran Burrone, i tre gruppi residui intraprendono destini differenti, sebbene tutti tesi al trionfo del Bene. Mentre Frodo e Sam si dirigono verso Mordor e le fauci di Monte Fato per distruggere l’unico anello, scoprono di essere seguiti dalla creatura Gollum (Andy Serkis) che, pur di stare vicino all'oggetto al quale sembra intimamente legato, si offre di accompagnare i due hobbit fino ai Neri Cancelli di Mordor, attraverso una strada meno battuta dagli Orchi, che passa attraverso gli acquitrini. Aragorn, Legolas e Gimli, nel frattempo, arrivano a Rohan, dove scoprono che il re Theoden (Bernard Hill) ha la mente soggiogata dal potere dello stregone Saruman (Christopher Lee), che mantiene il suo potere grazie alla spia Vermilinguo (Brad Dourif), individuo subdolo innamorato della principessa Eowin (Miranda Otto). Infine, Merry e Pipino, dopo essere riusciti a scappare dagli Uruk-hai – gli orchi creati da Saruman – vengono salvati da Barbalbero, un Ent secolare che mira a portarli al cospetto del misterioso stregone bianco. Se La compagnia dell’anello evocava l’ascesa di un gruppo di coraggiosi paladini difensori dei destini della terra, con Le due torri Jackson riesce a creare una miscela perfettamente equilibrata con tutte le componenti fondamentali di un buon racconto. Alla dimensione umana, già ampiamente sviscerata nel primo episodio, il regista movimenta la narrazione con sequenze in cui l'epicità delle battaglie raggiunge vette visivamente inesplorate. Come durante la battaglia al fosso di Helm, mentre imperversa la pioggia e l’avanzata del nemico sembra rafforzarsi, all’interno di mura credute inespugnabili, una piccola folla di disperati attende una soluzione o una dannazione. Le attente trasposizioni dalle pagine del romanzo d’origine, le innovazioni tecniche e le ampie panoramiche con cui il regista abbraccia il meraviglioso universo tolkieniano, sono tutti elementi al servizio del racconto, e mai il contrario, in un capolavoro fantasy che fa della magnificenza di mezzi e risorse, e della cura minimale di ogni componente - sia drammaturgica che scenografica - un dictat da perseguire e raramente eguagliato. Film di transito tra l’inizio dell’avventura e il suo inevitabile epilogo, il secondo Signore degli Anelli è senza dubbio il più cupo e pessimista della saga. Le torri del titolo – la reggia di Sauron e la torre dominata da Saruman – sono in realtà due oscuri monoliti che, come guardiani sinistri, controllano il mondo mentre si piega davanti all’avidità di potere e alla cupidigia che Tolkien vedeva nella realtà che lo circondava. Tra questi due poli di male assoluto – che nell'originale letterario richiamano gli orrori della Storia, delle grandi balconate di Mussolini e di Hitler – la Terra di Mezzo diventa una landa in esodo, schiacciata dalle battaglie, avvilita dalla minaccia del Nero Cancello di Mordor. «Perché ti trattieni qui quando non c’è speranza?» Chiede Elrond alla figlia Arwen (Liv Tayler), mentre gli alberi di Gran Burrone si fanno sempre più spogli. A che serve combattere quando il Male è destinato a perdurare? Nella risposta della principessa degli Elfi risiede il senso ontologico dell'impresa di Frodo e compagni: «C’è sempre speranza».