Se è vero che tutti attraversano quel multiforme sentiero di confine che dall’infanzia consegna ogni essere umano alle porte dell’età adulta, è altrettanto vero che ognuno le varca secondo cadenze, scadenze, tempi e modi propri, chi con passo lungo, o impaziente, molti arrancando, altri avanzando agevolmente, alcuni si fermano bussando. Tuttavia, non tutti trovano la sensibilità adatta ad afferrare parole concilianti e universalmente valide per narrare le tappe più importanti della vita. Perché nonostante siano passaggi obbligati e comuni, per chi le ha già vissute si crea di fatto uno scarto incolmabile da chi ancora tenta di districarvisi. E il distacco di pochi anni tra due generazioni talvolta è sufficiente affinché si adottino lingue straniere, idiomi differenti pur parlando degli stessi problemi e di avversità condivise. L’universo familiare di Giovanna (Francesca Di Benedetto), tredicenne timida e introversa, ruota attorno alla sorella minore Margherita (Ludovica Falda), chiamata affettuosamente “Pulce”. La piccola, affetta da autismo, inevitabilmente condiziona tempi, attenzioni e cure di mamma Anita (Marina Massironi) e papà Gualtiero (Pippo Delbono), che tentano con apprensione e amore di renderle le giornate più serene e scandite dalle sue musiche e dalle sue bevande preferite. Quando la bambina viene sottratta dalle autorità senza molte spiegazioni, sul padre ricade una terribile e infamante accusa. Lo stravolgimento subito, porta Giovanna, nella già delicata fase dell’adolescenza, a guardare con altri occhi la fragilità dei genitori, sempre più mortificati dall’alienante freddezza burocratica di quelle istituzioni che intendono tenere Pulce lontana dai ricordi della vita trascorsa tra le mura domestiche. Tratto dall’omonimo romanzo pubblicato nel 2009 dell’allora ventitreenne Gaia Rayneri, Pulce non c’è ricuce caparbiamente le lesioni dell’età adolescenziale, lenisce le contusioni individuali sofferte nel rapportarsi con le problematiche degli adulti, o nell’affrontare il dislivello comunicativo con i coetanei, in quello sbilanciamento che vede gli altri sempre troppo precoci, sempre in prima linea, sempre a puntare il dito contro chi non ha voglia di uniformarsi. E d’altra parte, chi si trova costretto a crescere anzitempo, non riuscirebbe nemmeno ad amalgamare le chiazze oscure dei propri fardelli nel monocromatico riflusso delle prime turbe giovanili. La pellicola di Giuseppe Bonito non parla della condizione di disagio legata all’autismo, né coglie abbordabili ventate retoriche di microcosmi domestici mossi dalle devianze comportamentali che una situazione anormale può scatenare. Pulce non c’è si limita, con l’educazione di chi si sente sempre nel luogo sbagliato, ad offrire lo sguardo di una tredicenne - investita dalle ombrose contraddizioni degli adulti, delle istituzioni, dalle voragini familiari e transgenerazionali - come punto di vista privilegiato, col pregio di far sentire, invece, il pubblico emotivamente al posto giusto, ovvero accanto alla trasognata protagonista, senza che la differenza anagrafica o contestuale escluda alcuno. Un’opera prima che possiede, nelle dignitose attese di appuntamenti mancati o altrimenti imposti, la sorprendente - e non sempre scontata – capacità di parlare un linguaggio limpido e delicato, diretto e mai brusco, profondo e al tempo stesso comprensibile, abbracciando, nella sua interlocuzione fruitiva, sia la massa che il singolo, sia gli integrati che gli emarginati, sia genitori che figli, separati, il più delle volte, da barriere comunicative insormontabili.