
I dubbi che si aggirano attorno al fragile fideismo dell’uomo emergono tutti di fronte ai suoi apoplettici stalli di coscienza, agli smitizzanti vagabondaggi esistenziali o alle vulnerabili distrazioni spirituali. Al cospetto delle insondabili contraddizioni della società civile, erte a perduranti colonne religiose e ideologiche di infrastrutture, brame di potere, ortodossie etiche e imposizioni etniche, viene da porsi il secolare quesito se sia Dio ad aver creato l’uomo a propria immagine e somiglianza, o piuttosto gli esseri umani ad aver concepito e plasmato l’immagine di un talvolta rassicurante - talvolta implacabile - giudice supremo, sospinti dall’immanente urgenza dei propri vulnerabili bisogni terreni. Mentre il Cile, piegato per anni al regime repressivo di Pinochet, inizia a sollevare la propria insofferenza contro la politica dittatoriale, nel piccolo paese di Peña Blanca, il caso del giovane Miguel Angel (Sebastián Ayala) suscita la curiosità di un’intera popolazione. Il ragazzo, che sostiene di poter parlare con la Vergine, mobilita pellegrinaggi da parte di compaesani e comuni limitrofi che accorrono per assistere alle visioni mistiche del sedicente eletto. A causa del polverone mediatico che ne consegue, la Diocesi di Valparaiso invia padre Fernandez (Patricio Contreras) a indagare sull’attendibilità di tali manifestazioni divine. Giunto nel luogo di culto, il prete si troverà davanti un’intera comunità di derelitti, specchio del paese soggiogato da un governo infame, aggrappati disperatamente alla speranza dell’avvento di un nuovo messia. E l’oggetto di tale venerazione, è soltanto la vittima prescelta per guidare i suggestionabili e volubili furori di un popolo. Il cinema cileno è un percorso trasverso, rigoglioso di storie convesse, sobbalzi di tumefazione onirica, terreno anagraficamente fertile. La nouvelle vague di tale giovane cinematografia si trova ad affrontare la schisi che l’elaborazione dei traumi del recente passato solleva, proiettando ombre da un lato nei recessi visionari dell’Amenabar di The Others, dall’altro nell’urgenza documentaristica di Esteban Lorrain e della sua Piranha Films. Il secondo lungometraggio del regista di Santiago narra le vicende di Miguel Angel Poblete, el vidente de Peña Blanca, che raccolse, nei primi anni Ottanta, orde di fedeli e l’attenzione mondiale attorno al paesino nella regione di Valparaiso. E come ogni buon racconto fondato su accadimenti storici, anche The Passion of Michelangelo vi prende le mosse per porre più approfondite riflessioni. In un ventennio in cui la politica dittatoriale fu l’ipocentro diasporico per artisti e poeti, mentre un’intera popolazione cercava un più vicino rifugio nella fede, la religione divenne lo strumento di controllo ideale per obnubilare le coscienze o sedarne i tentativi di risveglio. Ma nel disegnare questo scorcio cronachistico, Larrain eleva il tratteggio di profili psicologici individuali – padre Fernandez o lo speculatore Fecundo, che vende ai visitatori le fotografie degli avvenuti miracoli –, sfaccettati, tormentati e tramortiti dal delirio compulsivo di una massa informe e unita tanto nel sostenere, quanto nell’abbattere miti imposti per un accondiscendente sonno collettivo. Il regista cileno, su questo innalzamento di piani narrativi, sovrappone infine il palco spettacolarizzante della ribalta, e sotto gli abbacinanti riflettori fa muovere il ragazzo simbolo dell’accecamento globale, illuminato da notorietà e attenzioni, laddove la folla che lo sorregge, porta soltanto il peso della propria speranza vinta, sbeffeggiata e inferocita. Un ritratto corale che ben amalgama le ambiguità interiori dei protagonisti ai tre contenitori introspettivi, laddove sfondo populistico, comprimari, e primattore, vengono mossi da differenti pulsioni e debolezze – la povertà e la disperazione per il popolo, le attrazioni mondane per i chierici, la fama e il successo per Miguel – ma destinati tutti a condividere una medesima e rovinosa debacle al cospetto di Dio, esistente e reale o forse inautentico, e accortamente somministrato.