
Roman Polanski conosce l’apnea dell’esistenza, ancor prima di intravedere una coscienza intellettuale percorreva le voragini mnemoniche della follia e i fondali del dissidio collettivo del ventesimo secolo, della disperazione e dell’insensatezza lacerante dello spirito. Nel comprendere i risvolti individuali dell’alienazione, si fa portatore di uno sguardo tagliente a pelo d’acqua sui valori sociali in declino, per poi immergere manichini borghesi nel perverso vortice di ipocrisie e nevrosi relazionali. Sull’acqua e sulla mediocrità – sia del perbenismo che della ribellione ad esso, entrambe istanze sociologiche e generazionali fallimentari – galleggiavano i primi protagonisti del cinema polanskiano; poi vennero i disturbi psichici della Deneuve dapprima a crepare le pareti domestiche per poi sciogliersi nei gorgoglii e negli stillicidi di follia liquescente di Repulsione; l’alta marea infine è la barriera invalicabile di un altro triangolo di personaggi alla deriva, confinati nella vastità di un non luogo cerebrale senza via d’uscita. Richard (Lionel Stander) e il moribondo Albert (Jack MacGowran), due malviventi reduci da un colpo andato male, giungono in un castello periodicamente isolato dall’alta marea, all’interno del quale vive una coppia di sposini, George (Donald Pleasance), con un precedente matrimonio alle spalle, e la giovane e infedele Teresa (Françoise Dorleac). Mentre Richard attende impaziente che il boss Katelbach arrivi a prelevarlo, per l’annoiata Teresa, capace di trarre svago solo dalle occasionali visite di amici e conoscenti, ogni occasione è buona per rinfacciare al marito le sue incapacità o creare scompiglio negli equilibri domestici. Circondati dal vuoto dei propri fallimenti, fra i tre si instaurerà un’altalenante trama di alleanze, coesioni, risentimenti reciproci destinati a sfociare in un gioco al massacro devastante. Cul-de-sac è il degno erede cinematografico del teatro dell’assurdo di Beckett e Pinter. Sono sufficienti i titoli di testa per comprendere il sostrato metaforico del terzo lungometraggio del cineasta polacco. Il vicolo cieco del titolo è quello esistenziale al quale è destinato l’essere umano, inghiottito dall’incomunicabilità che invade ogni legame, trafitto dagli ultimi frantumi di medietà piccolo-borghese, e sepolto infine dal nonsense delle regole sociali. Polanski perfidamente, e sartrianamente, fornisce ai protagonisti della vicenda un’unica possibilità di stare al mondo: quella della convivenza forzata, in cui le sole energie potenzialmente investibili sono carburante per le guerriglie interpersonali, tra falsità , vessazioni, doveri coniugali puntualmente frustrati, e la negazione di qualsiasi richiesta di aiuto o tentativo di evasione. Si vive nel rimpianto del passato o nella vana attesa di qualcosa – un cambiamento, un’à ncora di salvezza – il cui arrivo è destinato ad essere quotidianamente, ciclicamente, infinitamente procrastinato. E anche se una via di fuga si prospettasse, sarebbe solo il condotto verso un’altra desolante isola.