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The Sessions

19/02/2013 11:00

Erika Pomella

Recensione Film,

The Sessions

Nel 1997 uscì il cortometraggio documentaristico dal titolo Breathing Lessons: The Life and Works of Mark O’Brien che vinse un Oscar nella 69° cerimonia di prem

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Nel 1997 uscì il cortometraggio documentaristico dal titolo Breathing Lessons: The Life and Works of Mark O’Brien che vinse un Oscar nella 69° cerimonia di premiazione: si trattava della storia del giovane poeta e giornalista americano – che per l’occasione interpretava se stesso – affetto da poliomelite dall’età di sei anni, e per tutta la vita paralizzato dal collo in giù, obbligato a rimanere attaccato ad un polmone d’acciaio, fatta eccezione per poche e preziosissime ore di libertà. In qualità di giornalista O’Brien si occupò della situazione dei disabili, esplorandone la vita quotidiana e lo spasmodico desiderio di appartenenza alla normalità. La sua inchiesta arrivò anche a toccare il lato sessuale della vita dei disabili: da ciò nacque il suo saggio On seeing a sex surrogate pubblicato sul Sun nel 1990. Da questo saggio il regista Ben Lewin prende le mosse nel dirigere un film delicato e irresistibile, che ha già vinto il premio del pubblico al Sundance Festival.


Mark O’Brien (John Hawkes) desidera una vita sessuale quanto meno apparentemente normale. Scottato da una precedente delusione amorosa e spaventato dal suo corpo, che fondamentalmente non conosce, l’uomo decide di affidarsi ad un surrogato sessuale, che gli insegnerà a prendere consapevolezza della propria fisicità e della propria sessualità. La scelta ricade su Cheryl Cohen-Greene (Helen Hunt): con regole ben precise, Cheryl riuscirà a far aprire Mark abbastanza da portare a termine il suo primo rapporto sessuale. Tuttavia lo stretto contatto tra i due spingerà Cheryl ad abbattere le proprie barriere difensive innalzate in tutta la sua vita, e il rapporto professionale che lo lega a Mark diventerà ben presto una profonda amicizia senza via di fuga.


Soave e commovente, The Sessions è una pellicola sull'amore che sfiora il tema della disabilità, presentandola al pubblico attraverso le immagini d’archivio dell'incipit a sottolineare la realtà dei fatti messi in scena. Non tanto il volubile e terreno legame tra due persone durante un percorso quotidiano, quanto piuttosto un sentimento utopistico e irreale. Il Mark O’Brien che Lewin porta efficacemente sul grande schermo è un uomo pieno di umorismo e colmo di parole che echeggiano nella sua mente, un continuo vulcano in eruzione intrappolato in un corpo offeso sia dalla malattia sia dall’umiliazione perenne di essere come formato a metà. Assetato di conoscenza e corpo meccanico a causa della polio, Mark segue su libri scientifici l’atto dell’amore e ne rimane spaventato, quasi disgustato. Per la prima volta in vita sua il poeta non troverà risposte nelle parole che lo accompagnano, ma nella compagnia di una donna che, al suo pari, sembra avvolta da meccaniche ripetizioni nell’adempimento del suo lavoro. Questi due esseri umani spezzati, manichini involontari lungo il sentiero dell’esistenza, si incontrano e si scontrano, fisico contro fisico, nel loro tendere, quasi inconsapevolmente, ad un coinvolgimento emotivo, che scava nella profondità delle loro ambizioni. La nudità dei corpi – che porta con sé estasi e scoperta – ben si specchia con una nudità spirituale che è il punto d’arrivo massimo, quell’apice dove un amore a lungo sognato può diventare raggiungibile. Tutto questo è reso da pennellate sapienti di colori caldi e da una fotografia avvolgente, mentre la macchina da presa spia e indaga sulla nudità della Hunt, ma soprattutto sulla grandiosa prova d’attore offerta da John Hawkes - colpevolmente lasciato fuori dalla cinquina che concorrerà alla vittoria dell’Oscar. Un ultimo encomio va fatto al non protagonista William H. Macy, nei panni di un prete amico e confessore del protagonista, con il quale condivide ricordi, aneddoti e risate, accompagnando lo spettatore in uno spettacolo assolutamente delizioso.


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