Robert Miller (Richard Gere), è un magnate della finanza che, in procinto di festeggiare i suoi 60 anni, sembra possedere una vita perfetta, ritratto di appagamento familiare e successo professionale. Ma a dispetto dell’apparenza, Miller cela un castello di bugie, traffici non del tutto leciti e operazioni mirate a nascondere le frodi finanziarie, nascoste alla devota moglie Ellen (Susan Sarandon), alla figlia ed erede Brooke (Brit Marling) e alla bella amante Julie (Laetitia Casta). Ma proprio mentre Miller attende che arrivi un’ultima firma a concludere un importante affare, un grave incidente attira sull’uomo l’attenzione del detective Michael Bryer (Tim Roth) della polizia di New York, che tenterà l’impossibile perché Miller non insabbi le ombre finanziarie. Nel 1976 Elia Kazan dirigeva un giovanissimo Robert De Niro in The last tycoon, pellicola elegante, colta e avvincente, di poco successo in Italia ma di enorme appeal per i successivi film del genere. Contraltare al fascino glamour e scintillante di The Great Gatsby, quella pellicola costituisce il modello più evidente per l’opera di Nicholas Jarecki, che dirige – con un’atmosfera leggermente sottotono – il ritratto inquieto, psicologizzante e decadente di un magnate alla vigilia dei suoi 60 anni. Se infatti Kazan imponeva sullo schermo il giovane De Niro con aggressività e prepotenza scenica, Jarecki scrive piuttosto un film vellutato, avvolto su un cast di attori eccezionali, in cui – tra la magnetica Susan Sarandon e l’istrionico Tim Roth – spicca la riscoperta presenza di Richard Gere, ormai svestitosi dai panni di eroe romantico in favore di un ruolo crepuscolare, malinconico e oscuro. Nicholas Jarecki, scrittore e fratello d’arte (Andrew ed Eugene Jarecki lo hanno preceduto alla regia con pellicole come Love & Secrets, Why We Fight, Addiction) esordisce alla regia con una pellicola nella cui impeccabile sceneggiatura si legge non solo la formazione letteraria ma anche un’ottima cultura cinematografica. Jarecki si dimostra un regista “classico”, sin dalla tecnica di presentazione dei personaggi, introdotti all’interno del proprio ambiente, sia esso l’alta società di Miller o l’ufficio dell’indolente detective interpretato da Roth. L’intero svolgimento della trama, inoltre, attraverso l’opposizione dei due personaggi antitetici di Miller e Bryer, manifesta uno scontro cinematografico nel quale ad uscirne maggiormente sfaccettato è inevitabilmente il protagonista. Se le più celebri trame del genere tycoon hanno abituato il pubblico a magnati del cinema e della comunicazione (da Citizen Kane a The Aviator), La frode è un raro esempio di commistione della tradizione con il thriller lento, di argomento finanziario-borsistico, giocato sul tema oppositivo – non originale ma scritto e diretto da Jarecki con alcuni spunti interessanti – tra denaro e sentimenti. Coerentemente con i risvolti storici degli ultimi anni, il cinema USA torna a riflettere sul valore dei soldi nella società capitalista in declino, attraverso un allegorico “eroe nero”,personaggio controverso in grado di comprare tutto e tutti, di dettare ordini alla propria figlia come fosse un dipendente, di tenere le proprie donne appese a fili come un burattinaio, di rispondere apparentemente ad una sola logica: quella del denaro. Di contro, antagonista altrettanto affascinante è il detective Bryer, anch’egli votato a logiche di prepotenza investigativa e stratagemmi di ogni genere, per indagare su Miller estirpando il male solo con altro male. Con una concentrazione da scrittore, Jarecki mantiene saldamente le redini di un one man noir costruito sull’intensità del personaggio di Miller che, da arrogante uomo d’affari - diviso tra lavoro, donne e potere - si sviluppa in un protagonista quasi diabolico, incarnazione dell’aberrazione capitalistica che costringe a nascondere ad ogni costo scheletri e ombre. Nell’intreccio di personaggi, teatralmente giocato sull’individualismo, sia nel proprio agire lungo la narrazione - un susseguirsi per lo più di primi piani e dialoghi a due voci – sia nel proprio esistere nella trama come personalità autonome mosse da fini che giustificano i mezzi, La frode è un thriller classico, che non cede alla banalità né ad esiti prevedibili e conduce inevitabilmente lo spettatore ad una riflessione sulle anime nere generate dalla società del denaro.