Bisognerà attendere qualche anno ancora per capire se il successo riscosso da Uomini che odiano le donne, quello diretto da Niels Oplev per intenderci, potrà davvero rimanere circoscritto alla trilogia letteraria di riferimento, o avrà piuttosto contribuito a creare, nel pubblico d'ogni dove, un inedito interesse nei confronti del thriller con tinte noir più o meno corpose provenienti dalla fredda terra di Svezia. Ragionando in quest'ottica, L'ipnotista rischia di essere uno dei primi film a giungere nelle sale sfruttando la scia della trilogia larssoniana. Gli ingredienti sono più o meno i medesimi: la sparizione, l'indagine, un villain misterioso, un personaggio con capacità investigative superiori che accetta di mettere le proprie doti a disposizione di chi indaga sulla faccenda. Nel film in questione, ad aiutare il detective di turno (Tobias Zilliacus) a venire a capo di una serie di omicidi, sarà , non senza qualche riluttanza, Erik (Mikael Persbrandt), psicologo capace, attraverso l'ipnosi, di ottenere informazioni dal subconscio di testimoni di eventi delittuosi così come da vittime clinicamente incoscienti. A dirigere il tutto ritroviamo Lasse Hallström, nativo di Stoccolma ma operativo negli States da oltre vent'anni. Il ritorno a casa del regista si traduce nel sospirato abbandono delle atmosfere zuccherose che permeavano tutta la sua filmografia a stelle e strisce (da Chocolat a Hachiko, da Le regole della casa del sidro agli adattamenti di Nicholas Sparks) e, nell'economia del film, garantisce una professionalità sopra la media (lo si nota soprattutto nel rutilante grand finale). Hallström, poi, magari con il David Fincher di Zodiac nel mirino, dà al film un ritmo compassato e immerge il racconto nelle atmosfere fioche quando non oscure proprie del romanzo di riferimento oltre che del paese ospitante. Sono però sufficienti pochi minuti perché le vicende raccontate da L'ipnotista comincino ad assumere il respiro di numerosi altri film sulla medesima falsariga. Privo di un qualunque sguardo registico o dell'autocontrollo che rendevano memorabile il già citato thriller di Fincher, privo altresì delle velleità d'affresco o dell'attenzione che la trilogia svedese riservava nei confronti dell'incancrenimento della propria borghesia o del torbido passato cospirazionista del paese, L'ipnotista si trascina stancamente lungo la propria eccessiva durata, senza saper offrire spunti capaci di andare oltre al dozzinale rimpiattino.