Nato a Bombay alla mezzanotte del 15 agosto 1947, giorno in cui l'India ottiene l’indipendenza dall'Inghilterra, Saleem Sinai (Satya Bhabha) ripercorre, da uomo maturo, la storia della propria vita: nato da una coppia di casta infima, è scambiato da un’infermiera dell’ospedale con Shiva (Siddarth), anch’egli venuto al mondo alla stessa ora, nello stesso giorno, nello stesso luogo, ma da genitori benestanti. Solo apparentemente lontane, le vite di Saleem e Shiva, come quelle di un altro migliaio di bambini “figli della mezzanotte”, sono destinate ad incrociarsi fra loro e ad intersecarsi con la macrostoria indiana che li accompagna e fa da sfondo alle loro esistenze. Con i suoi un miliardo e trecento mila abitanti, l’India è una terra sterminata in cui le vicende degli uomini che formicolano per le sue vie - lungo le gremite metropoli, attraverso i mari, le pianure e le catene montuose che non appartengono a nessuno ma che lo spirito di ognuno di essi in parte possiede - si perdono in un susseguirsi di nascite e di morti, cifre inarrestabili che azionano un contatore demografico destinato a correre sempre più rapido. Con il suo sontuoso I figli della mezzanotte, Deepa Mehta porta sullo schermo la storia di un uomo il cui destino si lega a doppio giro con quello del suo paese, l’India del post-indipendenza, in cui essere nati in una regione o in un'altra è determinante almeno quanto essere nati poveri o ricchi, induisti o musulmani. Saleem Sinai, venuto al mondo per ogni aspetto dalla parte sbagliata - vittima di un tiro del destino giocato per mano di un’infermiera rivoluzionaria - si ritrova protagonista di una vita che non gli appartiene, annodata con convinzione ad una storia indiana in parte inedita. Quella di Saleem è una vicenda terrena, umanamente epica, che origina dagli antenati e tocca la contemporaneità, rappresentata con la cruda sensualità che solo una terra di immagini forti come l’India può offrire. Deepa Mehta, come già fatto nelle acclamate opere precedenti - in particolare nei tre film della “Trilogia degli Elementi” (Fire, Earth e Water) - raffigura con sapienza la bellezza che nasce fra la miseria, l’orrore e la speranza, opponendo visi logori a candide lenzuola, stracci a pelli ed occhi iridescenti, fino a condurre con fiducia lo spettatore ad affezionarsi ad ogni fotogramma del suo film come si trattasse di frammenti di una piccola storia o delle istantanee di una civiltà. Di contro a questa multisensorialità cinematografica, I figli della mezzanotte mantiene – seppur stritolato qualche volta fra le spire dell’intricata sceneggiatura di Salman Rushdie, autore dell’omonimo indimenticato best seller del 1981, che sacrifica inevitabilmente dettagli e caratterizzazioni dei personaggi - il tono spirituale che contraddistingueva il romanzo. Il folklore racconta che le anime degli oltre mille bambini venuti al mondo nella mezzanotte del 15 agosto 1947 - nel più importante giorno dell’India contemporanea – siano tutte in connessione e legate da una storia condivisa che valica le differenze di casta, le distanze e i destini personali. Facendo proprio l'affascinante soggetto di Rushdie, Deepa Mehta mostra - nonostante la lezione occidentale appresa in anni di vita in Canada - di non avere dimenticato i caratteri della cinematografia delle sue origini, contraddistinta da tempi distesi e inserti fantastici. L’onnisciente voce fuori campo, la natura sognatrice e trascendentale del protagonista, l’affascinante ambientazione - una messa in scena in grande stile, con scenografie e costumi esaltati dalla vivace fotografia di Giles Nuttgens - sono le costanti che ascrivono il cinema di Mehta in quel genere eroico che racconta l’India contemporanea e che si conferma capace, anche in presenza delle storie più drammatiche e ingombranti, di narrare con positività e candore una amata-odiata giovane nazione di contrasti.