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Bronson

29/04/2013 11:00

Paolo Sammati

Recensione Film,

Bronson

Esistono celle che non saranno mai abbastanza strette, anime, guidate dal caos e dalla ribellione più pura, alle quali è impossibile porre dei freni...

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Esistono celle che non saranno mai abbastanza strette, anime, guidate dal caos e dalla ribellione più pura, alle quali è impossibile porre dei freni. Quali sono gli strumenti in possesso della beneamata civiltà occidentale contro schegge impazzite come Michael Gordon Peterson? Uno splendido Tom Hardy interpreta il più pericoloso criminale d’Inghilterra, Peterson/Charles Bronson, uomo dall’enorme ego, famoso per aver passato la maggior parte della propria vita dietro le sbarre, ed in particolare trent’anni in completo isolamento. Incapace di condurre un’esistenza che non preveda la violenza e l’ossessiva ricerca della fama sin dall’infanzia, Bronson, finito in carcere per un piccolo crimine, si rende protagonista di brutalità sempre più feroci. Rispetta però un proprio codice di valori che lo porta al ripudio dell’omicidio e alla completa indifferenza verso la morale borghese dalla quale proviene.


Nicholas Winding Refn è un osservatore attento, mai amorfo, capace di un linguaggio fratto, di estrema tensione, di studiati cortocircuiti tra qualità umana del personaggio ed estetica sublime della fisicità, della musica e del disegno, pronto a far esplodere l'intera struttura. Un impianto scenico tripartito, giocato sui diversi fronti del monologo teatrale, dell’iperviolenza e dell’insufficienza delle impalcature sociali. Refn riesce ad evitare magistralmente il rischio più grande dell’accostarsi a storie e personalità problematiche, ovvero l’implicito parteggiare per un criminale violento. Si concentra piuttosto sulla descrizione formale di una personalità inevitabilmente magnetica, a metà strada tra l’artista e il masochista, in un equilibrio instabile che consacra personaggio (ed interprete) ad icona pulp, tra i migliori bad boy del cinema degli ultimi anni.


Ricordando il Kubrick di Arancia Meccanica, il regista danese è ironico nel delineare il rapporto tra il protagonista e il contesto, utilizzando i migliori espedienti della sua forma - sempre accurata - per abbozzare i limiti del sistema penitenziario. Lo stesso vale per la famiglia, imballata com’è nel proprio perbenismo e nella propria colpevole indulgenza. Questa cifra sociale, tuttavia, non è il tratto più appariscente di Bronson. Il film si fa apprezzare soprattutto per le già citate qualità formali che si esprimono in scelte cromatiche espressive, selezioni musicali antesignane della fortunata colonna sonora di Drive ed un’attenzione chirurgica per la corporeità del protagonista, statuario e continuamente contratto, con i pugni stretti trattenere quell'innata spinta distruttiva. Quest’insolita biografia non si concede possibilità di redenzione morale, né la cerca; la nega persino al pubblico che rimane silenzioso durante l’intero monologo di un Bronson truccato à la Pierrot il clown, ma che finisce per insorgere disgustato per la millantata fama raggiunta dall’esecrabile criminale. La risposta, tuttavia, è netta nell’ammonire - ricordando ad ognuno la propria mediocrità - “Nessuno verrebbe mai lì dentro con me mentre fuori c’è il sole”.


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