Said (Lorenzo Baglioni) ha 26 anni, nato e cresciuto a Firenze, da genitori algerini. Quando suo padre perde il lavoro e si vede negare il permesso di soggiorno, l'intera famiglia è costretta a fare ritorno in Algeria. Ma l'idea di partire per la terra natia dei genitori, per Said un posto estraneo e sconosciuto, terrorizza il ragazzo e lo conduce ad iniziare un'intensa battaglia mediatica, appellandosi ad avvocati e stampa, nel tentativo di attirare l'attenzione delle autorità e dell'opinione pubblica sull'assurdità delle leggi vigenti in materia di immigrazione e di concessione della cittadinanza agli italiani “di seconda generazione”. Loro sono i “nuovi italiani”, la generazione dei nati - dagli anni '80 in poi, oggi ventenni o appena trentenni - sul suolo italiano, da genitori africani o asiatici. Arricchiti da fisionomie esotiche e da tradizioni lontane, sono quelli che non solo si sentono italiani ma – parafrasando Gaber - per fortuna o purtoppo (per loro) lo sono. Dopo che Claudio Giovannesi ha stupito il pubblico del Festival del Cinema di Roma con Alì ha gli occhi azzurri (2012), un altro giovane regista, Haider Rashid - proprio come il protagonista, con cui condivide non solo la vicenda personale, ma anche il punto di vista, anch'egli fiorentino di nascita, da padre iracheno e madre italiana - torna a raccontare la storia degli italiani “di seconda generazione”, i figli degli immigrati, ancora ad oggi in Italia privati del civilissimo ius soli. Al suo quarto lavoro da regista, dopo Between Two Lands, Tangled Up in Blue e Silence: All Roads Lead to Music, Rashid dirige un film di immediato realismo e dalla logica ineccepibile. Il regista italo-iracheno sviluppa la paradossale vicenda di uno studente ventiseienne rifiutato dalla terra madre e riconsegnato ad una “patria” sconosciuta. L'assurdità del meccanismo del respingimento raccontato attraverso la storia singola del giovane battagliero Said, un'intepretazione ottima di Baglioni, seguito con sguardo serrato e camera a spalla. A fare da sfondo una Firenze assolata, un autobiografico scenario che fa da quinta ad una trama di tono kafkiano, un surreale ed assurdo processo ad un reato inesistente: quello di essere algerini e disoccupati, di essere considerati stranieri, pur avendo un figlio italiano. Said, coraggiosamente, si muove tra le pagine dei giornali, gli show televisivi e i sentieri della mediatica contemporaneità, in una battaglia che, a colpi di apparizioni e controinformazione, si oppone ad un meccanismo burocratico perverso capace di fare sentire un italiano ospite della propria nazione. Pur condividendone quasi in toto il tema principale - quello del sentimento di confusa appartenenza ad uno Stato piuttosto che ad un altro - rispetto all'opera di Giovannesi, Sta per piovere si concentra maggiormente sul lato d'inchiesta della vicenda dei nuovi italiani. L'operazione di Rashid è un esperimento interessante di contaminazione tra generi, a metà tra il documentario, il film-inchiesta e la fiction. Una pellicola diretta con leggerezza e caparbietà, identificativa di un occhio giovane ed esordiente, eppure cinematograficamente navigato, padrone della macchina da presa così come di una poetica e di un messaggio. L'unica pecca del film, dovuta forse ad una certa ingenuità narrativa o ad eccesso di chiarezza, il regista la commette nel tratteggiare il suo protagonista, per il quale indugia su dettagli - l'adorazione di Said per la nazionale di calcio italiana o la tiepida storia d'amore – che ne delineano un volto molto più schematico e meno sfaccettato dell'Alì di Giovannesi. Rispetto all'opera autoriale di quest'ultimo, si avverte qui meno poeticità e letterarietà (seppure la sequenza onirica della passeggiata nel deserto sia una bella prova di tecnica cinematografica), tuttavia una sceneggiatura limpida e una chiarezza di intenti fanno della pellicola di Rashid, che affronta una tematica relativamente giovane in Italia, un film che ha il grande pregio di dipingere con semplicità una complessa lacuna giuridica del nostro paese.