Basri (Erkan Kesal) lavora come guardiano delle ferrovie. Ogni giorno, a piedi, attraversa i chilometri di binari che corrono lungo il paesaggio dell'Anatolia. Silenzioso, cupo, vedovo, l'uomo ha un solo scopo nella vita: sapere che ne è stato del suo unico figlio Seyfi, arrestato 18 anni prima per ragioni politiche e da allora scomparso nel nulla. Per questa ragione, due volte al mese, Basri scrive alle autorità turche lettere in cui domanda del figlio, nella speranza di ottenere prima o poi una risposta. Se esiste una caratteristica comune fra gli autori del cinema turco contemporaneo, è quella di intendere le storie come panoramiche di lunghi paesaggi sconfinati, da abbracciare con un solo sguardo. Le opere prodotte lungo questi percorsi cinematografici, fra on the road e autobiografia etnica, sembra si scrivano quasi spontaneamente, senza necessitare dello sguardo del regista. Per questa ragione film come Muffa di Ali Aydin danno l'impressione di correre “di notte fra i treni con gli occhi bendati”, come scriveva il più famoso tra i poeti turchi. Nella pellicola dell'esordiente regista, classe 1981, sono i treni e i loro binari a dare una direzione al corso degli eventi, a generare una scia che Aydin segue con fissità e rigore, senza movimenti di macchina bruschi ma solo con lunghi carrelli, che accompagnano il protagonista, l'ombroso Basri, nel suo lavoro, lento e ripetitivo, di guardiano della ferrovia. Ad essere attraversata da lunghi binari è ancora una volta l'affascinante Anatolia, già set di Nuri Bilge Ceylan per il suo Once upon a time in Anatolia. Da quest'ultimo, al momento l'autore più apprezzato del cinema turco, non solo Aydin pare trarre ispirazione poetica ma da quel film provengono anche i due più intensi attori: il protagonista, Ercan Kesal, e Muhammet Uzuner, nel ruolo di Murat. L'Anatolia fa stavolta da sfondo ad un dramma psicologico e storico - quello dei desaparecidos curdi, dissidenti arrestati, scomparsi e mai più ritrovati, nella Turchia dei primi anni '90 - che ha conquistato il 69° Festival del Cinema di Venezia aggiudicandosi il premio come Migliore Opera Prima. Ambiziosa prova registica, Muffa è un film che si avvolge completamente nel mantello rassicurante di una cinematografia giovane e autoriale, che vince ai concorsi cinematografici ma che rimane – occorre ammetterlo - a tratti di difficile fruizione, con dialoghi ermetici, tempi lunghi e un'ineffabile poetica che affronta temi instabili come la scomparsa e l'attesa. Soprattutto però Aydin colpisce la psiche dello spettatore con la scientifica messa in scena del meccanismo riassunto dal titolo del film: küf, muffa. Attraverso i colori spenti di una significante fotografia verdastra a cura di Murat Tuncel, il regista turco mostra, pur con la sua giovane età, la rabbia a pugni aperti che appartiene all'uomo anziano, triste ed alienato, il marcimento di colui a cui viene sottratto il futuro - l'unico figlio – e, insieme ad esso, qualsiasi scopo che differenzi il vivere dall'esistere semplicemente. Funzionale a questo scopo, degno di nota è il lavoro attoriale che il protagonista Erkan Kesal porta sullo schermo ancor più che con le parole, attraverso il proprio corpo. Esemplare, in apertura del film, è il piano sequenza del colloquio tra Basri e il capo della Questura, un inizio in medias res che offre il ritmo – lento, cadenzato, ripetitivo – all'intero film. Qui, quello di Basri è il ritratto curvo di un uomo dallo sguardo basso e fioco, un'immagine di sofferenza interiore immodificabile, che resta uguale nel tempo e che attende la fine del colloquio per tornare, con occhi bendati, fra i treni dell'Anatolia.