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Infanzia Clandestina

22/05/2013 10:00

Paolo Sammati

Recensione Film,

Infanzia Clandestina

A quasi un anno dalla sua presentazione al festival di Cannes del 2012, Infanzia Clandestina arriva finalmente nelle sale italiane...

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A quasi un anno dalla sua presentazione al festival di Cannes del 2012, Infanzia Clandestina arriva finalmente nelle sale italiane. Al suo lungometraggio d’esordio, Benjamin Avila affronta le tematiche autobiografiche dell’impegno politico, della famiglia e dell’infanzia: 1979, nell’Argentina dei desaparecidos, il dodicenne Juan, figlio di due attivisti dei Montoneros, un’organizzazione in lotta con la giunta militare al potere, torna a Buenos Aires con i genitori e lo zio Beto dopo diversi anni di esilio. Costretto a cambiare il suo nome in Ernesto, il ragazzo cerca di condurre una vita normale a scuola, dove si innamora di Maria, pur dovendo continuare a fare i conti con la clandestinità che la situazione della sua famiglia impone.


Prendendo spunto da avvenimenti realmente vissuti, il regista argentino riesce a dipingere un affresco inedito su una vicenda storica ampiamente raccontata e denunciata, prediligendo uno sguardo che descriva la quotidianità delle famiglie coinvolte nella lotta alla dittatura. Nonostante i toni drammatici di alcuni passaggi, Infanzia Clandestina risulta essere una pellicola delicata e toccante, brillante nei dialoghi e in grado di raggiungere alti momenti di lirismo. Gli occhi di un ragazzo che troppo presto dovrà decidere che tipo di uomo essere non cercano prese di posizione urlate in maniera didascalica; la Storia, i ricordi, gli affetti e le relazioni sono affrontati senza fronzoli retorici, preservando una purezza che si affida visivamente alla fotografia di Ivan Gierasinchuk. Stupisce l’onestà programmatica di Avila che, pur raccontando vicende che lo riguardano da vicino (sua madre scomparve durante la dittatura insieme al fratello neonato) riesce a tenere a bada eccessi di sentimentalismo ed anzi a mantenere uno sguardo oggettivo sulla narrazione sin dalla fase di scrittura - affiancato, nella sceneggiatura, dall’amico brasiliano Marcelo Müller, che al contrario non ha mai vissuto il dramma della dittatura argentina.


L’amore sincero che lega Juan a Maria costruisce nel corso del film un conflitto con una realtà che fa della violenza il proprio idioma prediletto; una violenza che, tuttavia, non viene mai mostrata esplicitamente, ma anzi mediata, o magari elevata, da animazioni che stimolano l’immaginazione dello spettatore e la sua capacità compilativa. Come ha dichiarato lo stesso regista, “è un’idea mutuata da 'Kill Bill' di Tarantino. I disegni creano rapporto più intimo tra il piccolo Juan e lo spettatore. L’animazione è la rappresentazione della realtà e ogni spettatore è chiamato ad aggiungere qualcosa di suo a questa rappresentazione”. L’assoluta centralità del giovane protagonista assicura simultaneamente freschezza e tensione verso il futuro, innocenza affiancata a coscienza storica e politica, tanto che pare impossibile non riconoscere nelle intenzioni di Avila quella di affiancare idealmente la storia e le sorti di Juan - interpretato da un promettente Teo Gutiérrez Moreno - a quelle della nazione argentina tutta. Se anche la realizzazione di questo progetto non ha innescato in Avila - parole testuali - "un forte processo di catarsi” che lo portasse ad un’ideale riappacificazione con il suo passato, essa pare in grado di diventare un tacito compromesso con la sua famiglia, gli ideali rivoluzionari e il dramma di un’infanzia fuggita via troppo velocemente.


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