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Superman Returns

13/06/2013 10:00

Giuseppe Salvo

Recensione Film, CineComics,

Superman Returns

Il terzo lungometraggio della parentesi supereroistica di Bryan Singer, a differenza delle avventure dei mutanti Marvel, non gode della migliore vena allegorica

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Il terzo lungometraggio della parentesi supereroistica di Bryan Singer, a differenza delle avventure dei mutanti Marvel, non gode della migliore vena allegorica del suo regista, che con i due capitoli di X-Men era riuscito a trasporre le avventure e le meraviglie di Wolverine, Magneto e compagni, in un racconto maturo di emarginazione, segregazione razziale, e fede umanistica. Con Superman Returns, i vent’anni intercorsi dall’ultimo film della saga con Reeve si traducono – nella finzione filmica – nei cinque anni di assenza del supereroe dal pianeta Terra, in campo produttivo in una serie di progetti arenati – tra cui quello di Tim Burton degli anni novanta – e adattamenti televisivi sentimental-giovanilistici. Ma soprattutto, il ventennio sfociato nei 2000 rappresenta il periodo necessario allo sviluppo delle tecnologie digitali adeguate a rendere strabilianti e al passo coi tempi le gesta dell’alieno kryptoniano.


Sono passati cinque anni da quando Superman (Brandon Routh) ha abbandonato i cittadini di Metropolis per andare alla ricerca del proprio luogo natale e di risposte sulle proprie origini. Sulla Terra le cose intanto sono cambiate, l’attualità è teatro di notiziari sconfortanti, e anche nella vita di Lois Lane (Kate Bosworth) sono sopraggiunte diverse novità: premiata col Pulitzer grazie all’articolo “Perché il mondo non ha bisogno di Superman”, la giornalista si è nel frattanto creata una famiglia. Tornato dal vano pellegrinaggio, il supereroe è pronto a rivestire ancora i panni del custode della giustizia e della sicurezza terrestri, ritrovando il nemico di sempre, Lex Luthor (Kevin Spacey), la cui bramosia di potere e la cui ossessione nei confronti dell’eroe kryptoniano sono le uniche cose rimaste invariate negli anni. Per riconquistare il consenso degli esseri umani e di Lois, Superman dovrà sventare ancora una volta i piani omicidi di Luthor.


Con lo stesso dualismo del protagonista creato da Shuster e Siegel, Singer traveste l’attesissimo ritorno di Superman come fosse un sequel, ma ne rivela attraverso una trama che percorre tappe drammaturgiche note, la vera natura di remake – o reboot, che dir si voglia – dei primi due capitoli. Del Superman del 1978, il regista riprende infatti la medesima struttura narrativa, dall’atterraggio dell’astronave che porta Kal-El nei pressi della fattoria Kent, alla rivelazione del supereroe ai cittadini di Metropolis, allo scontro con Luthor, i cui subdoli piani di conquista del potere rimangono identici, così come i metodi per sconfiggere l’eroe. E i due binari ontologici del film passano per bocca dello stesso Spacey, la cui brama per il processo genetico insito nei cristalli di Krypton – che assumono la consistenza dei minerali circostanti, come un figlio che eredita i tratti del padre – lo porta a discettare sul potere della tecnologia e su come nei secoli quest’ultima, dall’alba dei tempi, sia stata la fonte di grandezza delle civiltà. Se si parla dell’anima di Superman Returns, ovvero il tema della ricerca del padre e il senso stesso dell’essere padre – nella figura di Richard White si rivede in parte quella di Jonathan Kent – questi appartengono al girato di Donner, allo script di Mario Puzo, ai Newman, a Reeve e al redivivo Brando – la cui immagine digitalizzata lo fa apparire in un cameo. Il costume indossato dalla pellicola di Singer, l’aspetto esteriore e visibile, invece, è prodotto del ventunesimo secolo, è il figlio maturo di un filone ormai ampiamente allevato – con i riavvii di Spiderman, Batman, Hulk – e che vede nel divertissement visivo e sinestetico il suo più genuino apporto. Del regista de I Soliti Sospetti, infine, è il merito di saper intrattenere sapientemente e sempre sul filo teso che dal dramma conduce al gusto per la battuta attraverso i ritmi dell’azione, con un trasporto emotivo – in questo caso – che fa della passione per il personaggio e per le pellicole di Richard Donner un passaggio e un confronto imprescindibili.


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