Colin (Romain Duris), ricco inventore parigino, incontra Chloè (Audrey Tautou), che ha il nome di un blues di Duke Ellington, e se ne innamora, ricambiato. I due si sposano, ma durante la luna di miele, in pieno idillio amoroso, Chloè contrae una rara malattia a causa di un germoglio che le cresce nei polmoni. L'unico modo per mantenerla in vita è circondarla costantemente di fiori freschi. Tale impegno riempirà l’intera esistenza di Colin diventandone l’unica ragione e conducendolo sul lastrico, dimentico anche degli amici più cari, Chick (Gad Elmaleh) e Nicolas (Omar Sy). Come si porta sullo schermo una figura retorica. La metafora che paragona la calca di invitati ad un matrimonio ad un abito dal taglio troppo stretto, la personificazione di un “lampione rosso di vergogna”, l’iperbole che fa desiderare ad un innamorato mesi di baci prima di esserne sazio. Boris Vian è scrittore di immagini e sensazioni: pagine di frasi luminose o cupe, di profumi tanto ben descritti che paiono provenire dalla stessa carta che compone i romanzi, di suoni così chiari che si può pensare di ascoltarli nella propria voce silenziosa di lettore. Michel Gondry di questa abilità per l’evocazione multisensoriale ne ha fatto una firma. Dopo aver esercitato il proprio talento immaginifico negli straordinari Eternal Sunshine of the Spotless Mind e L’arte del sogno, il regista francese si cimenta con la trasposizione cinematografica del più eclettico autore d’oltralpe, Boris Vian – scrittore, poeta, musicista, drammaturgo – in quello che è forse il suo romanzo più romantico e malinconico. Già nel 1968 il regista e attore francese Charles Belmont aveva azzardato una messa in scena cinematografica de L'Écume des jours, senza però riuscire a coglierne fino in fondo l’essenza. Di quell’opera scialba, priva sia del ritmo sia dell’atmosfera del romanzo di Vian, è rimasto alla memoria ben poco: un insuccesso di pubblico e critica, cui va attribuito il solo plauso di aver costituito un primo – seppur mancato – tentativo di trasposizione di un romanzo di grande complessità stilistica e narrativa. Quarantacinque anni dopo, Gondry ci riprova, avendo però stavolta dalla sua tecniche cinematografiche e trovate visionarie degne di un cineasta che ha nell’onirico il suo campo privilegiato ma che soprattutto de L'Écume des jours ha saputo cogliere il clima. Sulla geniale trama originaria (messa a punto dalla sceneggiatura di Luc Bossi), Gondry cuce una regia minuziosa ed attenta ad alternare a semplici surreali dialoghi d’amore, d’amicizia e d’esistenza un’ambientazione irreale, fatta di oceani straripati, di bolle di sapone, di ragazze che respirano fiori, di bizzarri marchingegni e atmosfere bohemien. Seppure sfortunata, l’appassionata storia d’amore tra Colin e Chloè è narrata a tinte vivaci, sfumate sugli angoli di cattivi presagi come lo scorrere del tempo - tanto nella fragile vita di Chloè quanto nell’ossessione d’amore di Colin - o come il lento disgregarsi di un intero mondo intorno alle vite dei protagonisti, completamente risucchiati dal proprio sentimento. Michel Gondry riesce a pieno nell’intento di portare sul grande schermo le visioni instabili di Vian, e anzi, nella sua trasposizione, l’opera beneficia di quei trucchi che la settima arte consente di utilizzare a chiunque abbia immaginato e messo sulla carta qualcosa di apparentemente irrealizzabile. Con il suo L'Écume des jours, il regista francese rompe infatti il tabù cinematografico che aleggiava attorno a Vian, firmando uno dei migliori sodalizi tra letteratura e cinema degli ultimi anni. Oltre agli interpreti, i protagonisti Romain Duris e Audrey Tatou - spontaneamente dandy lui e istintivamente chic lei - così come l’eccezionale rosa di comprimari, molta della fascinazione del film è data dai costumi, dalle scenografie sensazionali e da una pregevole colonna sonora quasi interamente jazz (un omaggio al musicista Boris Vian) che annovera tra le tracce anche la galeotta Chloè di Duke Ellington.