Erede di una sarta e di un maestro di musica, la piccola Violeta sogna di diventare una musicista famosa in grado di esorcizzare con la propria musica l’ombra della povertà che incombe sulla propria famiglia. Con una chitarra in mano (dalla quale sembra non separarsi mai dall’età di otto anni) la bambina cresce e scopre un amore incommensurabile per l’arte. Dopo anni trascorsi a Parigi, Violeta (Francisca Gavilà n) tornerà nella sua terra natia, il Cile, dove racconta le problematiche di una società che non capisce. Le sue canzoni, la sua arte e il suo grande amore saranno la via che la donna sceglierà di seguire per sfuggire alle ombre che la inseguono da sempre e che culmineranno nell’anno del 1967 quando, a soli cinquant’anni e dopo aver istituito l’Università del Folclore, la donna si toglie la vita. Il paragone, illecito e sfrontato, con la pellicola che nel 2007 il regista Olivier Dahan dedicò alla grande musa della musica francese, Edith Piaf, viene alla mente guardando la figura femminea di un’artista che, senza troppe ambizioni, è riuscita a cambiare il volto del proprio mondo. Se, da una parte il passerotto di Parigi era stato in grado, partendo dalla strada, di riscrivere la musica canora transalpina, allo stesso modo Violeta Parra si è vestita della sua arte e della sua musica per inventare un nuovo Cile. Ciò che però i due film hanno maggiormente in comune è la struttura altalenante, quel valzer schizofrenico che lega presente e passato in una danza apparentemente senza logica, dove ieri e oggi si inseguono, con l’artificio di un’ultima intervista che lega le varie dimensioni temporali dell’esistenza. In questo i due film sono molto simili, ma le similitudini si fermano qui. Il film di Dahan adottava un registro più romanzesco per narrare la propria storia; Andrés Wood sceglie un tono che si colloca a metà strada tra la memoria e il documentario, nel tentativo di agguantare l’inafferrabile, ossia quello spirito errante che le grandi personalità della Storia hanno e che permette loro di cambiare il mondo. La maggior qualità di Violenta Parra Went to Heaven, tuttavia, è la capacità che ha Wood di nascondersi dietro il racconto visivo. In un film sospeso, dove la macchina da presa diventa elemento di intercettazione e spionaggio, il regista non schiaccia la diegesi con la propria personalità ; rinuncia ad inutili esercizi di stile e lascia che siano le immagini a parlare. Nelle scene rarefatte, dove il suono e la musica mostrano le due facce di una stessa medaglia, ad emergere è una figura femminile di forte impatto emotivo. Violeta, voce del popolo e del Cile: una donna che il vaiolo ha sfigurato, senza però spengere il suo anelito alla vita e, soprattutto, all’amore. Inteso non solo come sentimento carnale o cervellotico capace di unire due persone, quanto piuttosto come desiderio umano di sentirsi accettati, di riuscire a ritagliarsi un ruolo nel mondo, senza dolore o solitudine. Un sogno utopistico, quello della cantante, che mostra le proprie lacune quando Violeta è costretta a degradarsi per chiedere al maestro di musica Gilbert Favré di amarla. Perché, quando nel 1967 arriva il colpo di pistola che spegne per sempre il desiderio e l’entusiasmo di Violeta, il Cile è ancora lontano dall’essere quel mondo paradisiaco dove le spinte creative della donna avrebbero potuto trovare un posto. Sentimenti di nostalgia e rassegnazione che si susseguono anche sullo schermo, dove Andrés Wood pennella questo ritratto con sensibilità e profonda commozione. Gracias à la vida, uno dei brani più popolari di Violeta Parra, accompagna lo spettatore durante i titoli di coda, nelle cui note è impossibile non avvertire l’entusiasmo di una donna ossessionata dal desiderio di vivere e inesorabilmente schiacciata dalle proprie illusioni.