David (Patrick Huard) è un quarantenne immaturo e inaffidabile che conduce una vita sregolata, intrattenendo un’improbabile relazione con Valerie (Julie LeBreton), una giovane poliziotta. Quando quest’ultima rimane incinta, l’uomo – pur terrorizzato dalla paternità - è costretto a confrontarsi con uno scomodo paradosso: David è infatti “padre” naturale di 533 ventenni, nati da una passata e proficua attività di donatore di seme. Degli oltre cinquecento “figli” di David, sono un centinaio quelli che, dopo un’azione legale contro la clinica, reclamano di conoscere il nome del donatore/padre, protetto solo dallo pseudonimo di allora: Starbuck. Nel 2006 il New York Times pubblicava la notizia di due sconosciuti scopertosi “fratellastri” in quanto nati dal seme dello stesso donatore che vent'anni prima aveva dato origine, con un nome di fantasia, ad un gran numero di nascite. Nonostante quest'ultimo avesse deciso di usufruire del diritto all’anonimato, ben presto il suo nome divenne noto e centinaia di ventenni si ostinarono a volerlo conoscere come padre naturale. Dopo essere stata oggetto di un documentario (Donor Unknown di Jerry Rothwell) e avere ispirato telefilm e serie tv, la storia vera del padre più fertile del mondo arriva al cinema attraverso l'esordio alla regia di Ken Scott, un passato da sceneggiatore, esperienze di autore televisivo e una carriera fra i comici canadesi di Les Bizarroïdes. Starbuck è una commedia divertente, dove il comico è dato proprio dal paradosso dell’origine da una vicenda reale, che pure il regista esaspera fino a rendere grottesca. Senza curarsi eccessivamente dell’inverosimiglianza data alla pellicola dalle incongruenze legali e delle ignorate questioni morali legate al tema della donazione del seme, Scott si preoccupa soprattutto di dare vita ad un film ritmato, dotato di un umorismo sottile e cauto, placidamente disteso su un rassicurante velo di buonismo sentimentale. Se infatti il regista si priva di scrupoli etici per quanto riguarda lo scivoloso soggetto del film, la morale - quando c'è - è senz’altro inerente al tema della paternità, una scelta proveniente non dall’imminenza né da costrizioni sociali ma da un desiderio intimo e consapevole. Come per il protagonista David, per sentirsi padre non è infatti necessario essere maturi e responsabili ma è sufficiente l’affetto, che è possibile provare anche per un centinaio di sconosciuti e caparbi ventenni. Seppure avvezzo da anni alla sceneggiatura, Ken Scott scrive un film non privo di buchi narrativi e salti logici (specie per quanto riguarda il legame di parentela fra i 142 ventenni e il protagonista o nella costruzione e crescita del personaggio di David), ma soprattutto finisce talvolta per indugiare troppo sul melenso. Tuttavia – merito forse dell’esperienza comica – il maggior pregio del regista è quello di dare vita a dialoghi originali ed acuti: in particolare le sequenze che vedono in scena David, un’ottima prova della star canadese Patrick Huard, e il suo avvocato, interpretato da Antoine Bertrand, o ancora il protagonista e suo padre, l’attore Igor Ovadis, sono le migliori del film. Già successo di pubblico e critica in Canada - con un premio vinto al Festival di Vancouver e applausi convinti a Toronto – e un paio di remake internazionali in lavorazione, Starbuck è una pellicola con un cast e una lavorazione tutta firmata in patria. L’esordio di Scott punta infatti alla distribuzione europea e statunitense con il preciso intento di fare conoscere il cinema canadese, ispirato al filone indipendente made in USA ma dotato di una recitazione curata e classica, come piace nel vecchio continente.