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Tom à la Ferme (2013): un noir claustrofobico e opprimente

02/09/2013 11:00

Valentina Pettinato

Recensione Film, Film LGBT,

Tom à la Ferme (2013): un noir claustrofobico e opprimente

Classe 1989, al suo quarto lungometraggio, Xavier Dolan presenta al 70esimo Festival di Venezia Tom à la ferme

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Classe 1989, al suo quarto lungometraggio, Xavier Dolan presenta al 70esimo Festival di Venezia Tom à la ferme, tratto dalla pièce di successo di Michel Marc Bouchard. Evocando suggestive atmosfere kafkiane e optando per uno stile meno ridondante e più secco e diretto, il regista canadese effettua una virata confezionando un noir claustrofobico e opprimente. Il protagonista della storia è un pubblicitario che abbandona la città temporaneamente per assistere al funerale del suo defunto compagno Guillaume. Giunto nella fattoria dei parenti dove alloggerà per qualche giorno e deciso a rivelare ai familiari la natura del suo rapporto con il compianto, dovrà presto abbandonare i suoi propositi. In campagna conosce infatti il fratello di Guillaume e subito prende il via un gioco perverso fatto di violenza, menzogna e paura. La fattoria isolata immersa nelle pianure del Québec è un non luogo, dove il tempo si è fermato, dove imperativo categorico è salvare le apparenze: Tom infatti sarà costretto a fingersi un amico mandato dalla presunta fidanzata di Guillaume sfinita dal dolore in sua vece, per un ultimo saluto.

 

Inizia così il viaggio lungo una strada che collega la città alla provincia, l’identità costruita a quella acquisita. Tom è un creativo, che vive con un uomo. In una fattoria, dove gli uomini sono bruti e usano le maniere forti, non importa quale sia la natura individuale, quali le ambizioni: un fattore deve rispettare le regole. Anche Francis, fratello di Guillaume, rispetta da tempo un ruolo, un contadino costretto a badare alla fattoria e alla madre, vedova e ormai anziana, senza poter andar via di casa. La condotta che si confà a un figlio modello in una dimensione rurale. Affascinante e oscuro, quello di Dolan è un mélo che si tinge di nero, che racconta i percorsi più oscuri della mente umana, quelli che spingono il protagonista omosessuale a negare la natura del suo rapporto con il fidanzato scomparso, ad accettare le percosse di un uomo che glielo ricorda così tanto, a spogliarsi dei suoi abiti cittadini e partecipare persino alla nascita di un vitello.

 

 

Senza abbandonare le sue classiche tematiche introspettive tra amore, passioni e altri demoni, ma scegliendo uno stile più asettico, il film scorre con qualche slittamento, con qualche brusca sterzata, ma arrivando quasi incolume fino alla meta. Il regista seleziona tutti gli elementi psicotici e drammatici presenti nella propria opera con la volontà di esasperarli: gli stati d’animo che circondano la menzogna, la follia come precipitato della perdita di qualcuno caro, le nevrosi legate a verità che non si vogliono accettare, il bisogno di trovare in qualcuno il mezzo per scaricare tutta la tensione legata alla fine di una dimensione affettiva. Il protagonista, per non creare traumi alla madre del suo amante, si fa depositario di questa falsa identità e decide di sottostare alle leggi di un gioco macabro e pericoloso dove tutti mentono sapendo di mentire - a se stessi prima che agli altri - e che trascina tutti, nessuno escluso, in una follia collettiva e autolesionista. All’interno del film lo schizofrenico passaggio dei personaggi dal proprio ruolo a quello di finzione è reso adeguatamente dalle scelte tecniche, attraverso l’alternanza di sequenze girate in cinemascope e alcuni richiami iconici (come il civico 69 dell’appartamento, che più che un’allusione sessuale è scelto come simbolo dell’inversione dei ruoli). Da Almodovar a Kubrick (evidenti i riferimenti a Shining) fino a Hitchcock, l’opera di Dolan si gonfia di eccessiva leziosità, col rischio di perdersi qualche spettatore, o di imbrigliarlo, con le maglie delle proprie ambizioni, nei difficili ingranaggi narrativi.

 

 

 

 

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