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The Zero Theorem

08/09/2013 10:00

Erika Pomella

Recensione Film,

The Zero Theorem

Una delle scelte migliori che Quentin Tarantino ha fatto nel corso della sua lunga carriera da cineasta è stata quella di portare un attore come Christoph Waltz

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Una delle scelte migliori che Quentin Tarantino ha fatto nel corso della sua lunga carriera da cineasta è stata quella di portare un attore come Christoph Waltz alla ribalta, regalando all’industria cinematografica uno degli interpreti di maggior talento degli ultimi anni. Terry Gilliam sceglie l’interprete di Bastardi senza Gloria per il suo The Zero Theorem, ritorno dell'eccentrico regista di Parnassus.


Qohen Leth (Christoph Waltz), hacker sui generis, ridotto quasi all’esistenza meccanica di un androide, vive le sue giornate nel terrore di perdersi la telefonata che potrebbe cambiare la sua vita. Fuori dal monastero che ha scelto come casa, Qohen assiste alla routine di un mondo distopico, dove l’occhio di cineprese nascoste è onnipresente e dove le corporazioni, presiedute dal misterioso Management (Matt Damon), hanno il monopolio assoluto. L’esistenza di Qohen cambia quando Management lo assume per lavorare al Teorema Zero, formula di impossibile dimostrazione, che mira a provare la completa inutilità del mondo. Tuttavia per Qohen il mondo non è più un antro buio da cui scappare, da quando Bainsley (Mélanie Thierry) è diventata sua amica.


The Zero Theorem si pone in maniera quasi speculare al cult Brazil; se in quest’ultimo la popolazione era schiava di una sorta di cinica messinscena del 1984 orwelliano, nel nuovo film di Gilliam l’idea di una burocrazia onnisciente e onnipresente torna in modo preponderante, schiacciando l’umano in una dimensione intermedia, dove realtà e sogni sconfinano l’una negli altri, senza nessuna apparente via d’uscita. Eppure, molto più che sul senso di claustrofobia di un’attualità prigioniera della tecnologia, Gilliam si concentra su un protagonista e sul suo modo di rapportarsi alla realtà contingente. attraverso tutt una serie di piccole manie, dalla germofobia fino all’incapacità di parlare di se stesso se non attraverso l’utilizzo della prima persona plurare. Solo e abbandonato alle proprie paure, ai propri dubbi e alle proprie contraddizioni, Qohen cerca già inconsciamente un contatto che possa riportarlo dalla parte dell’umanità mentre si muove come una pedina impazzita all’interno di uno schema ben più grande di lui. Quel noi che ripete in continuazione altro non è che un bisogno di calore, di accettazione e, soprattutto, di presa di posizione. Le sue aspirazioni e le sue domande vengono manipolate e riscritte, senza che all’uomo/androide sia possibile confrontarsi con qualcuno, anche solo per chiedere se tutto quello che vede è reale, o se al contrario si trova intrappolato in una dimensione altra, meno autentica sebbene forse più piacevole. Ecco perché alla fine, l’arrivo di Bainsley rimette tutto in discussione: in una rilettura sci-fi dell’intramontabile mito de La bella e la bestia, Gilliam dirige un'opera folle, talvolta kitch ma decisamente emozionante grazie soprattutto all’incredibile prova attoriale di Christoph Waltz, che da solo conferisce solidità e senso al film.


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