Nel 1976, durante la cerimonia degli Oscar, Rocky ottenne 3 riconoscimenti tra cui quello per il miglior film, scalzando dal podio avversari dalle spalle larghe quali Taxi Driver, Quinto potere, Questa terra è la mia terra e Tutti gli uomini del Presidente. Una dimostrazione pubblica della validità del sogno americano secondo cui la ricerca della felicità non è limitata al grande schermo. La parabola ascendente di Stallone/Balboa divenne simbolica tanto per l'America quanto per il mondo intero fino alla sua chiusura con Rocky V nel 1990, ma il film non aveva convinto il suo ideatore - nonostante il ritorno di John G. Avildsen in cabina di regia. Da lì la volontà di girare un sesto capitolo: per riscattare lo spirito del personaggio attraverso un epilogo più rispettoso e lineare, ambientato strategicamente a Filadelfia. Rocky (Sylvester Stallone) non è più lo stesso: vorrebbe tanto ritrovare uno scopo, migliorare il rapporto con il figlio, ma più di tutti riabbracciare la sua amata Adriana, morta a causa di un tumore al seno. Abbandonati i ring e i riflettori, a lei dedica il ristorante italiano che gestisce e all'interno del quale racconta ai clienti i suoi fasti da pugile dei pesi massimi. Una sera la televisione trasmette un ipotetico incontro, generato al computer, tra Rocky Balboa e il nuovo campione Mason Dixon (Antonio Tarver). A quel punto scatta un'idea: l'ex pugile pensa che può fare qualcosa che gli piace; meglio farla male che soffrire per il rimpianto di non essere andati fino in fondo. Ancora una volta, e senza più una stella che gli illumini il cammino, Rocky tornerà sul ring a cinquant'anni suonati per dimostrare a se stesso che la grinta non ha una data di scadenza e che si può emergere dall'anonimato anche dopo aver raggiunto il successo. Tra tutti i film della saga, Rocky Balboa è quello che in assoluto trascende la realtà , scontrandosi con il peggior nemico dell'uomo, il tempo, e di conseguenza la vecchiaia, avvicinandosi spesso al patetico senza mai abbracciarlo del tutto. L'atteggiamento malinconico dello stallone italiano è acuito dalla perdita della moglie e dal controverso rapporto con il figlio, ma pur sempre determinato a trovare un posto nel mondo e a riconquistare un sogno che sembrava fosse andato perduto. Si tratta fondamentalmente di un remake, non molto esigente, del primo Rocky: riscatta la medesima struttura narrativa e mantiene inalterata la metafora di vita che sta alla base del personaggio, secondo la quale l'importante non è vincere ma resistere ai colpi inferti, rialzarsi e trovare la forza interiore che consente di trasformare un comune bullo di periferia in un modello da seguire. Dal punto di vista agonistico vi è un sostanziale miglioramento della resa degli incontri pugilistici, grazie a credibili effetti sonori e all'uso di telecamere HD della HBO usate dall'emittente televisiva per eventi sportivi trasmessi in pay per view: la trovata conferisce maggiore realismo ai colpi inferti (tutti reali, a detta dell'attore italoamericano) e accresce l'impressione che si tratti di un incontro dal vivo, abbattendo non di poco il gap anagrafico tra i due combattenti. Con Rocky Balboa, in veste di sceneggiatore e regista, Sylvester Stallone coglie l'essenza del suo alter ego e ripercorre nostalgicamente quei luoghi per lui significanti, ora abbandonati, in un simbolico effetto amarcord che attribuisce alla saga lo spirito conclusivo che avrebbe meritato quindici anni prima. La visita ai fantasmi del passato (l'incontro con la ragazzina, i flashback, la martellante musica di Bill Conti) e il contrasto sociale – lo squallore metropolitano di Filadelfia contrapposto ai colori sfarzosi di Las Vegas – sanciscono definitivamente il rapporto di fiducia tra l'autore e i suoi fan. Il risultato è un emozionante ritorno alle radici che mette un punto alle vicende cinematografiche dell'uomo, ma estende all'infinito l'immortalità del messaggio che ha generato in questi decenni: come testimoniano i celebrativi titoli di coda, più che mai vivo nel cuore delle persone.