Nel corso della sua carriera Sofia Coppola si è fatta in qualche modo portavoce di un male imperante nella società odierna. Con la grazia e la poetica che le sono caratteristiche, la regista di Marie Antoinette ha sempre parlato dei vuoti siderali in cui l’essere umano precipita più o meno consapevolmente. Dal racconto delle giovani sorelle che arrivano a gesti estremi pur di dar senso ad una vita arida e spoglia ne Il giardino delle vergini suicide, fino al voyeuristico racconto di un'esistenza sempre uguale a se stessa - Somewhere - fino al recupero della figura storica di Marie Antoinette, rappresentante di una corte volta solo all’apparenza e colpevolmente vuota all’interno dei gusci di taffetà , Sofia Coppola ha sempre inseguito il malessere umano della ripetizione e del nulla esistenziale. I suoi protagonisti sono sempre uomini e donne che si lasciano trascinare dalla marea, che affogano in una cultura fatta di idoli e manchevolezze. Con il suo ultimo lavoro, Bling Ring, la Coppola non cede il passo, né cambia bersaglio. A finire sotto la sua lente di ingrandimento sono, questa volta, degli adolescenti che si beano dell’apparenza allo stato puro, ragazzi che si lasciano guidare non più da valori o sentimenti, ma da quello che leggono in rete. Il mondo di Hollywood diventa una fabbrica di sogni materiali, una sorta di paese dei balocchi peccaminosi dove l’apparire diventa il mantra più importante. Ecco allora che, all’insaputa delle proprie famiglie, questi figli del nuovo millennio passano il loro tempo intrufolandosi nelle case dei personaggi famosi, derubandoli di quelli che considerano oggetti sacri: scarpe Miu Miu, accessori Chanel, abiti di Versace, in una girandola di materialismo arricchita da droga, ricettatori e serate vuote, fino all’inevitabile cattura. Perché nessuno può fuggire dalla persona che è. Tratto da un articolo di Vanity Fair che ripercorreva la vera storia di un gruppo di adolescenti ossessionati dal mondo dell’apparenza, Bling Ring è un film patinato e volutamente vuoto. Sofia Coppola costruisce un contenitore dai colori accesi e studiato fin nei minimi particolari e lo trasforma in un labirinto di perdizione che prende le caratteristiche del girone infernale dantesco dove, al posto dei demoni, sono i mostri sacri della moda a farla da padrone. Con il suo personale stile di lunghe sequenze con macchina fissa, voci fuori campo e riprese quasi snervanti, la regista di Love in Translation dirige un film sull'inconsistenza, ma lo fa così bene che il nulla diventa di spessore, specchio contorto e pieno di crepe di una gioventù bruciata, depauperata della propria umanità e costretta al continuo tentativo di essere qualcos’altro, di diventare qualcun altro. Il tutto sorretto da una colonna sonora che, come sempre, non si limita ad accompagnare le vicende messe in scena; le note diventano quasi un personaggio aggiunto, un elemento spesso di disturbo nel suo stridere con quanto l’occhio è costretto a registrare.