C’è una vita trascorsa e sepolta dietro i volti dei migranti. Qualcosa di acquattato e reticente che a guardarli superficialmente molto spesso neanche vediamo, indaffarati e frettolosi come siamo, resi impermeabili da sospetto e diffidenza. Una verità timida, che vede se stessa come indegna, che si vergogna, che non smette mai di sentirsi subalterna e straniera anche in quella che ormai, a conti fatti, è casa propria. Roland Sejko in Anija – La nave provvede anzitutto a far breccia in questa muraglia che impedisce di osservare e permette solo di ignorare, attraverso una sequenza di volti che lascia già col fiato sospeso e chiarisce fin da subito la motivazione intima di un documentario estremamente sentito. L’incontro perfetto di poesia sfumata e storicità in un connubio in cui alla narrazione personale dell’esperienza da parte degli intervistati segue l’immedesimazione, spontanea e accorata, di chi guarda. A partire naturalmente dal 1991, dal racconto di un post-disfacimento - quello dell’Albania - la cui dittatura venne meno dopo anni di regime comunista segnando la fine di uno degli ultimi regimi di stampo socialista rimasti in Europa e accendendo nei suoi abitanti un lumicino di speranza per un futuro migliore, da cercare in coste nuove, verso altri e dunque preferibili lidi. L’Italia, quindi, che si ritrova ad accogliere l’esodo albanese che si riversa sulla Costa Adriatica nei porti di Bari e Brindisi. I corpi spesso nudi, ancora incrostati di sporco ma con addosso l’inconfondibile sorriso di chi vuole vedere la luce in fondo al tunnel, anche alla cieca, anche se visto o permesso di soggiorno non ci sono. Sovrani dopotutto sono gli occhi del cuore, che anela già la libertà come porto definitivo cui attraccare. Un sentimento talmente forte da bucare lo schermo e arrivare direttamente allo spettatore facendo ardere di verità le immagini di repertorio e i documenti selezionati, tra i quali le fotografie e il materiale radiofonico giocano un indiscusso ruolo da protagonisti. Un cenno con la mano o col volto, un ok abbozzato è quanto basta per vedere balenare in quegli uomini, donne e bambini la scintilla di ciò che un tempo fummo anche noi italiani, in abiti, secoli e contesti diversi. La testimonianza, nel documentario di Sejko, diventa esposizione morigerata, messa a nudo pudica di un’intimità dolorosa che non può prescindere dall’occultamento delle sofferenze patite, dalla dissimulazione delle pene del viaggio che si limita a diventare tristezza soffocata e rievocazione dolente. L’epica valenza biblica dello sbarco contrapposta all’esecrabile disgusto verso la dittatura di Hoxha, portatrice di miseria e penuria. Se dal punto di vista culturale il treno per l’Europa sembra perso per sempre, non resta allora che stringere lo sguardo sull’orizzonte fisico che si staglia in lontananza, chiudendo gli occhi per non lasciarsi accecare da un sole troppo forte e implacabile per risparmiare una delle terre più sfortunate dell’intera penisola balcanica. La pace delle passeggiate domenicali, le strade pulitissime dell’Albania non torneranno più. Una consapevolezza, una certezza inappuntabile. La fuga costringe a obliare per sempre l’album dei ricordi per non lasciare le ferite a sanguinare ininterrottamente come lavandini in perdita perenne. "When the ship comes in" - come canta Bob Dylan - si può solo sentire sul proprio corpo quel senso di immobilità e sospensione che ci invade quando siamo dinanzi a uno snodo cruciale ma non sappiamo di preciso cosa ci sia oltre. Come “la calma nel vento prima che si scateni l’uragano”, implorando che la tempesta non sia troppo inclemente. Sejko coglie meravigliosamente la non facile complessità di tutte queste angosce e incertezze, mettendosi in prima persona dentro gli eventi narrati alla fine dei titoli di coda (una scelta che, anche solo dal punto di vista grafico, è fortissima) e facendo delle sue immagini una terapia, una ri-analisi degli eventi proiettata verso un auspicabile superamento della condizione di esiliati. La terra sarà anche di chi la vive e di chi la rispetta, ma la Storia - con la s maiuscola - e l’aberrante senso comune spesso è, purtroppo, di un altro avviso. Sejko ci mostra allora da un lato il volto mostruoso e invadente della Storia (attraverso un uso addirittura kubrickiano della musica classica) e dall’altro la fragile porcellana antropologica delle storie - con la s, questa volta, minuscola - tutte meritevoli d’interesse, umili e significative allo stesso modo. La sua è, tra le tante cose, anche una mirabile operazione diacronica, focalizzata sui lasciti che il passaggio inesorabile del tempo porta con sé: che né è stato di quella generazione di sfollati? Dopo vent’anni, cosa resta? Domande portate avanti con la forza di una ricognizione che non ha paura di smuovere la polvere sotto il tappeto. La sua nave è anch’essa dolce ma non rinuncia all’amarezza, non chiude la porta all’utopia ma non dimentica neanche il lacerante dramma della realtà, quella più aspra e vera.