
Dopo essere finito sotto i riflettori grazie al successo di Legion e alla calda accoglienza riservata a Priest - Il prete, il regista statunitense Scott Stewart torna in cabina di regia per dirigere un thriller psicologico che unisce inquietudini adolescenziali ad effetti speciali prettamente fantascientifici. La famiglia Barrett sta attraversando un periodo di crisi economica. Daniel (Josh Hamilton) ha perso il lavoro e sua moglie Lacy (Keri Russell), agente immobiliare, ha difficoltà a piazzare appartamenti nel nuovo mercato fondiario. Quando nella loro casa cominciano ad accadere eventi inquietanti e il piccolo Sammy (Kadan Rockett) inizia a soffrire di sonnambulismo cambiando identità , i Barrett, dopo essersi documentati, saranno costretti a rivolgersi a un esperto di presenze aliene (J.K. Simmons). Lente panoramiche laterali introducono gli spettatori in un ordinaria cittadina americana popolata da villette a schiera e famiglie altoborghesi. Improvvisamente l'atmosfera cambia e la macchina da presa acquista movimenti frenetici e vorticosi per accompagnare un ospite inatteso tra gli incubi di un innocuo bambino di sei anni. Le frequenti variazioni di inquadratura, le atmosfere buie e oscure e le grida di terrore e disperazione, predominano voracemente su ogni piccolo spiraglio di luce. Le ottime premesse iniziali, che strizzano l'occhio a Incontri ravvicinati del terzo tipo, Poltergeist, L'invasione degli ultracorpi e, persino, a Gli uccelli di Hitchcock, lasciano presto il posto a un collage fastidioso e sconclusionato di sequenze proprie del genere fantascientifico. Stewart, esperto di effetti digitali (Mars Attack!, Jurassic Park - Il mondo perduto), calca troppo la mano sull'inquietante esistenza di presenze oscure ritratte come una sorta di boogeymen ossessivi, possessivi e compulsivi. I suoni, i rumori e persino gli odori tipicamente spielberghiani lasciano il posto a un'interiorità frammentata e deviata che rivela una realtà esterna macabra e maledettamente apocalittica. Dark Skies, dunque, perde colpi, si eclissa e finisce per ripiegarsi su se stesso in una sorta di monologo pedante e logorroico perchè - come scrive Arthur C. Clarke (2001: Odissea nello spazio) - esistono solo due possibilità : o siamo soli nell'universo o non lo siamo, ed entrambe le cose sono terrificanti.