
Anchorage, Alaska, 1983. Jack Holcombe (Nicolas Cage) sergente di polizia in procinto di abbandonare l’incarico si trova ad indagare sul più spinoso caso della sua carriera: la scoperta nei boschi dei cadaveri di una serie di donne seviziate ed uccise. Quando alla macabra successione di ritrovamenti si aggiunge la testimonianza di Cindy Paulson (Vanessa Hudgens), prostituta sopravvissuta alla tortura e sfuggita da morte sicura, per l’agente Holcombe si fa sempre più certa la tesi di trovarsi di fronte ad un serial killer. Tratto dai reali fatti di cronaca che tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta coinvolsero la gelida Alaska nella ricerca del suo più efferato serial killer, Robert Hansen, accusato degli omicidi di una trentina di donne, i corpi di alcune delle quali mai più ritrovati. Per il suo esordio alla regia, Scott Walker si serve dei ricordi e della consulenza dell’unica sopravvissuta della follia omicida di Hansen, per ricostruire una storia che oltre al pathos sia veritiera e rispettosa della memoria di quelle vittime che appaiono in una coda di immagini al termine del film. Questa scelta estrema - di cui parte della lode va alla coraggiosa Paulson - attribuisce a Scott Walker un carattere di umana unicità nei confronti dei suoi colleghi produttori di thriller a fiato corto con protagonisti star, spesso asettici e privi di relazione con la realtà. Walker non perde invece mai di vista l’ottica del poliziesco, servendosi del torbido – ricreato non solo nelle sequenze che riguardano l’assassino ma anche nella malvagia indifferenza della cittadina di Anchorage, Alaska - al solo fine di generare un’atmosfera propensa a tenere il pubblico in tensione, in una turbata osservazione delle indagini che non perda mai di ritmo. Per un esordio registico, Walker mostra di padroneggiare bene sia la sceneggiatura, destreggiandosi tra giallo, investigation-movie, biografia e drammatico, senza rinunciare ad una cura per il particolare che rivela uno sguardo e un gusto per l’inquadratura documentaristici, efficaci al limite del biopic. Corrispettivo ambientale di una trama nebbiosa e torbida è la grigia Alaska, perfetto sfondo di una murder story, attraverso la fotografia fredda di Patrick Murguia che alterna agli squallidi paesaggi cittadini di neon i gelati e spogli esterni. Soprattutto però ogni personaggio de Il cacciatore di donne risponde ad una logica di incastri interpersonali che portano gli interpreti a dare vita a ruoli vivi e – seppure in un solco di tradizione hitchcockiana - moderni, che valorizzano il proprio attore anche laddove le premesse di casting potevano scoraggiare. Non solo il datato, ma migliore che altrove, Nicolas Cage, convincente detective dalle molte sfumature, ma anche il non più solo romantico John Cusack e la giovane Hudgens, promossa con successo da teen idol ad un ruolo drammatico lievemente tinto di innocente sensualità. La scrittura del film, vivace ma onesta, riesce a dare ad ogni personaggio una funzione veritiera, restituendo tanto i tormenti e la frustrazione dell’agente Holcombe, quanto la paura dei familiari e delle vittime di Hansen. Merito forse l’accorata testimonianza di Cindy Paulson, particolarmente riuscito è il ritratto della giovane prostituta sfuggita al killer e il suo rapporto con l’agente Halcombe, unico uomo a credere – di contro alle volgari affermazioni dei suoi colleghi - che “sia possibile violentare una prostituta” e ad instaurare con la donna una collaborazione animata da affetto e da un tesa ma tacita fiducia. Se infatti il poliziotto è il solo a manifestare inquietudine per la sorte delle donne come Cindy, il ritratto dell’America di provincia tracciato da Walker è la bieca suburbanità di inizio anni ’80, cieca, sorda e protetta dall’illusione delle proprie armi, rivolte contro gli stessi assassini che essa stessa cresce in seno dietro al volto perbenista della quotidianità.