Ci sono film capaci di attirare lo spettatore con pochissimi lampi registici, pellicole che avvincono il pubblico dopo pochi attimi di visione, riuscendo nell’impresa di far parlare i personaggi senza troppe mediazioni o trucchi artati. L’esordio di Jan Ole Gerster dietro la macchina da presa – dopo aver collaborato a molteplici sceneggiature ed essere stato aiuto regia in quel piccolo gioiello che è Goodbye Lenin – è di quelli che lasciano il segno e sembrano intravedere una carriera dal potenziale illimitato. Oh Boy – Un caffè a Berlino è un diario per immagini, un voyeuristico viaggio nelle 24 ore di una giornata apparentemente comune di Niko (Tom Schilling), un giovane berlinese colto e riflessivo, che con un’autoironia disarmante, si muove per le vie della sua città incontrando personaggi sopra le righe, maschere di una società nella quale a volte stenta a riconoscersi. Tutto per cercare una tazza di caffè degna di questo nome, che non costi troppo e che sappia, effettivamente, di caffè. Girato in un bianco e nero elegante che sembra strizzare l’occhio all’estetica della nouvelle vague francese, Oh Boy è un film sorprendente: sotto la sua aria retrò e vintage, nasconde la ricerca perpetua di un ragazzo stralunato che cerca gli occhi della gente intorno a lui e che vede gli stessi demoni e gli stessi turbamenti che muovono i suoi passi. La pellicola di Gerster è una battaglia contro la solitudine e l’isolamento; tuttavia, invece di ricorrere ad un racconto cupo e potenzialmente noioso, il regista si affida ad una storia briosa e accattivante, dove il volto di Schilling diventa il punto di riferimento, una macchia di colore che non esce mai dal quadro, ma anzi vi rimane impresso, anche dopo che i titoli di coda hanno chiuso il racconto. Delizioso, divertente e scritto in maniera impeccabile, Oh Boy è il racconto originale di un ragazzo che, da solo, rappresenta la nuova generazione tedesca, quella che porta ancora sulle proprie spalle il fardello della seconda guerra mondiale (non sono pochi, in effetti, i richiami a Hitler) e che per questo si sente in qualche modo esclusa dal mondo, come se dovesse pagare in eterno le colpe di generazioni precedenti. Un ultimo accenno va fatto alla meravigliosa colonna sonora curata dai The Major Minors, un continuo susseguirsi di note jazz che, se da una parte ricreano un’atmosfera à la Woody Allen, dall’altra si sposano perfettamente alle immagini messe in scena, conducendo il protagonista in una giornata difficile da dimenticare. Da lui e da chi è seduto in poltrona a guardarlo.