Isabelle (Marine Vacth) ha 17 anni, vive con la madre, il fratello minore ed il patrigno. Dopo aver vissuto in vacanza il suo primo, deludente rapporto sessuale decide di sperimentare il sesso a modo proprio iniziando a prostituirsi fissando appuntamenti via internet. Ma ciò che inizia come un gioco, è destinato a diventare per Isabelle qualcosa che cambierà definitivamente la sua giovane vita. Nell’anno in cui la Lolita di Kubrick compie 51 anni e la riedizione moderna di Sam Mendes in American Beauty ne ha ancora solo 14, François Ozon porta sugli schermi una nuova acerba bellezza francese a turbare le fantasie degli uomini e a raccontare il passaggio dall’adolescenza alla maturità attraverso un incontro insano con il sesso. L’aspra bellezza della protagonista di Ozon, la modella parigina Marine Vacth – classe 1991, già musa per Yves Saint Laurent – rievoca icone del cinema francese di formazione, più o meno innocenti. Se da un lato infatti la dolcezza dei lineamenti dell’attrice ricordano l’eterna giovinezza della primissima Sophie Marceau, dall’altra è la sua tormentata sensualità a far pensare soprattutto all’inerme Maria Schneider di Ultimo tango a Parigi. Di contro alle interpreti che l’hanno preceduta, di innocente però l’Isabelle di Ozon ha poco o nulla. Con riprese insistenti sul corpo fanciullesco e intimi primi piani su uno sguardo apparentemente candido, il regista mette in scena quella che somiglia alla poetica di riempimento di un contenitore vuoto. Il vaso da colmare di esperienza, il foglio bianco su cui scrivere, è rappresentato da una ragazza alle sue prime avventure sessuali e amorose, dove tutto quello che essa è destinata ad essere è ciò che impara, a spese anche dei propri errori. Il racconto dell’incontro di Isabelle con il sesso cela un’intenzione registica quasi manualistica. Sin dalle prime inquadrature Ozon si colloca rispetto alla macchina da presa in posizione esterna, distaccato al limite della freddezza autoriale, celandosi dietro qualsiasi punto di vista invadente ed invasivo, sia esso quello del fratello minore di Isabelle, dei suoi “clienti”, della madre o del patrigno. Per tutto il film si ha la sensazione che il regista – di solito più avvezzo alla narrativa sentimentale - voglia tracciare una fenomenologia della scoperta del sesso attraverso uno sguardo che spia dalla serratura, privo di giudizio morale ma anche di una qualsiasi mediazione poetica che salvi lo spettatore dalla continua sensazione di voyerismo. Seminuda o semplicemente indifferente alla macchina da presa, salva l’interpretazione della Vacth solo la sua spontanea bellezza, indagata minuziosamente lungo il corso delle stagioni, che scandiscono il passare del tempo e ne determinano la crescita, costellata di lacune formative tanto quanto il film di Ozon lo è di contenuti. Nel raccontare il vuoto, o forse la caotica pienezza dell’adolescenza, il cineasta parigino dimentica di riempire il suo film – almeno dove richiesto dalla trama – se non di un messaggio, di quel minimo di slancio emozionale che porti lo spettatore ad avere un qualsiasi tipo di reazione nei confronti dell’esperienza di formazione della protagonista. Seppur capace di generare un cinema libero da giudizi e costrizioni, il regista di Dans la maison inciampa anche stavolta in un eccesso di zelo estetico: forse il fascino della sua protagonista, forse una generica confusione di intenti ma, fatta eccezione per una lunga celebrazione dell’avvenenza della Vacth, resta in Jeune et Jolie solo una sottile rievocazione di altre, più convincenti, lolite.