La celebre storia dei fratelli Grimm trasferita nell’Andalusia degli anni Venti, in forma di film muto purissimo, filologico in tutte le sue componenti. Inutile nasconderlo: Pablo Berger qualche anno fa non avrebbe mai girato un progetto del genere e senza The Artist la sceneggiatura con ogni probabilità sarebbe rimasta nel cassetto ancora a lungo. E, a dirla tutta, sarebbe stato un peccato. Perché Blancanieves, a differenza del suo omologo francese pluridecorato, fa dell’estetica del silent movie una profonda ragione d’esistere più che un omaggio ammiccante e furbastro, fin troppo sbandierato nelle strizzatine d’occhio, estremamente rassicurante nel suo (riuscitissimo) tentativo di accalappiare i favori del pubblico con l’arma affilata e sottile della nostalgia cinematografica. La pellicola di Berger non è viziata da questo atteggiamento ingombrante, anzi, si pone fin da subito in un’ottica più sfaccettata e problematica, meno asservita alla mera retorica del coccolone. Si veda, a questo proposito, una delle sequenze iniziali in cui una specie di imbonitore cinematografico – attività connessa alle origini del cinema, quando la celluloide dei primordi era commercializzata alla stregua di un’attrazione circense – viene allontanato insieme alla sua attrezzatura dal vero tempio per eccellenza della cultura spagnola, l’arena dei tori. Una presa di posizione abbastanza nitida: piuttosto che riflettere in filigrana e in modo metacinematografico sul passato remoto più icastico e glorioso della settima arte, il film di Berger quel cinema lo ricrea più che teorizzarlo, lo mette concretamente in scena più che elevarlo a totem privilegiato di cui farsi scudo. Ed è così che Dreyer si fonde ai freak di Tod Browning congiungendo in un’unica linea retta autori lontani ma accomunati da una tensione condivisa verso la mostruosità . È in tal modo che dei non troppo vaghi sentori buñueliani, allo stesso tempo, riescono a segnare uno scarto in avanti rispetto a un cinema a forte rischio di essere relegato in una zona di confine troppo lontana nella memoria collettiva o, peggio, di venire riletto da un postmodernismo sterile e involuto. Il film di Berger ha anche il merito di un’egregia fusione, in virtù della quale l’immaginario folkloristico iberico più nazionalpopolare si fonde al nitore lattiginoso di un bianco e nero d’epoca (la protagonista è l’orfana di un torero divenuto leggenda e appena defunto): un connubio interessante ma soprattutto efficace, grazie al quale si sommano incanto su incanto, lacrime su lacrime, fascinazioni su fascinazioni. Eccessivo e generoso, mimetico rispetto all’epoca che racconta, compiuto anche se affastellato, sorretto da un’ispirazione notevole di scrittura e dalla genuinità dell’operosa ricostruzione retrò, Blancanieves sa ammaliare col calore immortale della sua lieve e candida umanità ma allo stesso tempo conosce il senso del sublime connesso al terrore e non si sottrae dal dargli il peso dovuto. Nonostante l’adorabile cornice e l’onestà di fondo non può non rimanere però il sentore di qualcosa che sappia inevitabilmente di riesumazione, non sterile ma di sicuro prigioniera dell’automatismo. Un inno alla bellezza abbagliante ma per forza di cose autoreferenziale, indubbiamente splendido ma anche nato già morto, auto-concluso nel passato in cui provvede a relegarsi, anche se senza mai vampirizzarlo. O, ancor meglio, senza mai farne un discutibile bignamino per favorire la fruizione e l’avvicinamento degli spettatori contemporanei, preferendo alla patina della confezione la carne e il cuore di una rilettura vibrante e sentita. Blancanieves è una favola come l’originale, ma per fortuna non si sottrae dal lasciare spazio ai momenti più neri e alla crudezza di una dramma di fondo che non fa altro che rimarcarne il coraggio e l’autonomia dello sguardo. Il bellissimo finale, tragico e feroce, non può che sottolineare il cuore di tenebra di qualsiasi pur meraviglioso girotondo consacrato alla messa in fiera delle illusioni. Il baraccone in cui la protagonista viene esposta, non a caso, somiglia in modo terribile e funesto a un Santo Sepolcro. E il bacio del principe azzurro, stavolta, sa quasi di necrofilia.