Sara (Karen Martínez) ha sedici anni e ha deciso di sfuggire alla povertà del Guatemala e passare la frontiera degli Stati Uniti in cerca di un futuro. Così si traveste da ragazzo e insieme agli amici Juan (Brandon López) e Samuel (Carlos Chajon) intraprende un viaggio lungo e pericoloso durante il quale i tre si imbatteranno in Chauk (Rodolfo Domínguez), un indio del Chiapas che non parla spagnolo ma che pare determinato quanto loro a raggiungere il confine. Quasi vent’anni di esperienza come operatore di macchina - spalla a spalla con Ken Loach in Terra e libertà (1995) e Bread and roses (2000) e al fianco di Oliver Stone e Alejandro González Iñárritu - per imparare la sensibilità del cinema politico e il ritmo incalzante del thriller e prepararsi, dopo diversi corti, al primo impegnativo lungometraggio. Con La gabbia dorata, un titolo bello come quelli di Loach e una trama che non invidia niente al maestro, Diego Quemada-Díez mette in campo gli insegnamenti degli anziani per un’opera prima che non risparmia mezzi e idee e che si propone come manifesto di un cinema ispanico arrivando sino al Centro America e raccontandone, complice la lingua comune e un antico debito di conquistatori, i tormenti e le contraddizioni sociali. Spagnolo di nascita, adottato dagli States, Quemada-Díez fa sua la storia di un quartetto di ragazzini poveri del Guatemala che a costo della vita intraprendono la pericolosa rotta che attraversa l'America centrale fino alla frontiera fra Messico e USA. Non una grande migrazione e nemmeno una storia di mare e barconi, ma un’emigrazione silenziosa che ogni anno vede milioni di persone spostarsi per i deserti guatemaltechi e messicani e sfidare i muri, i narcos e i fucili statunitensi. Dare a questo fenomeno il volto dell’adolescenza è un’operazione che ha il suono di una speranza, quella di raggiungere il futuro – uno spunto poetico rappresentato dalla metafora di un treno con binari lunghissimi - anche con pochi mezzi economici, come nel caso di Sara e Juan, o culturali, come per Chauk, straniero in tutte le terre. La preferenza per tre giovani attori dai volti autentici e dagli sguardi intensi, i cui ostacoli linguistici necessitano nella fiction tutto il loro sforzo mimico e gestuale, è forse la più riuscita scelta di Quemada-Díez: seguendone tanto il viaggio quanto il percorso umano, il regista empatizza con i propri protagonisti come li presentasse quasi personalmente al pubblico e domandasse a quest’ultimo di unirsi al viaggio. Persino la scelta di girare in super 16, preferendo un’immagine imperfetta e documentaristica, che appaia “povera” coerentemente con la storia e i luoghi raccontati, costituisce un’ulteriore abbattimento della barriera che separa autore e spettatori tanto quanto cameraman e regista. E per avvalorare questa propensione, Diego Quemada-Díez, che in virtù del proprio lungo passato come tecnico di ripresa sa bene quanto una bella immagine non sia per forza un’immagine esteticamnte curata, sceglie per il suo esordio la fotografia della documentarista María Secco. Se si esclude il vizio di ingenuità nel rappresentare la frontiera con qualche semplificazione di troppo e un eccesso di sintesi nel riassumere in poche esplicative sequenze il divario fra la condizione guatemalteca e il “sogno americano”, l’opera di esordio di Diego Quemada-Díez è, prima ancora che una storia d’emigrazione, un viaggio affascinante che al suo termine è in grado di lasciare lo spettatore con una sensazione positiva che somiglia molto alla speranza.