Un collettivo che riunisca al suo interno mediometraggi di registi differenti non può non rappresentare in un qualsiasi festival un momento ghiotto e succulento: ci si trova infatti davanti a una fruizione diversa, più segmentata rispetto a quella cui si è in qualche modo costretti, proiezione dopo proiezione, nelle lunghe maratone che caratterizzano svariate kermesse. Ecco che allora dinanzi a un prodotto del genere diventa possibile alleggerire il tono e perfino giocare, soffermarsi su questa o quella frazione del film al di là della sua complessità generale, senza l’obbligo, per una volta, di recepire l’opera nella totalità dell’insieme che rappresenta. Tales from the Dark arriva fuori concorso al Festival Internazionale del film di Roma 2013 con queste prerogative ben precise e non disattende le attese. Il film è infatti un concentrato distillato e purissimo del cinema di Hong Kong che vede il contributo di svariati registi, alle prese con gli adattamenti dei racconti di Lilian Lee. Pur trattandosi di individualità diverse la sensazione netta è quella di un efficace lavoro di convergenza, considerando le affinità che legano tra loro i vari episodi senza che la specificità e l’originalità di ognuno di essi venga mai minata. La scissione in due proiezioni delle rispettive parti è una scelta che di sicuro agevola la fruizione ma contribuisce anche a scalfire una naturale continuità che sarebbe auspicabile cogliere in via sequenziale, per avere ben chiare in mente le analogie e le differenze tra i vari sguardi autoriali che il progetto provvede a convogliare sotto un'unica egida. Il leitmotiv, però, è uno: l’oscurità e il non detto che abita ai margini dell’inquadratura come spazio privilegiato per riflettere sui meccanismi del terrore e della tensione, senza dimenticarne tanto le potenzialità quanto i limiti. La seconda parte del dittico appare a tal proposito più tradizionale per lo meno nell’idea di partenza: al centro della vicenda vi sono dei personaggi caratterizzati in modo preciso, che finiscono pertanto col dettare i modi e i tempi del racconto a partire dalle traversie del loro mondo interiore così come del loro quotidiano (il disoccupato, il veggente, una donna cui viene chiesto di maledire quattro persone a lei ignote). Nella prima assistiamo invece ad una mini-trilogia più interessante anche per via della disparità e dei dislivelli che caratterizzano i singoli episodi, che permettono di disporre di un’interessante visione comparativa. Il primo in assoluto, diretto da Gordon Chan e intitolato Pillow, è intinto in un erotismo sognato in cui un cuscino rivela poteri inaspettati. Si tratta probabilmente del più debole dei tre, con un esubero di scene di sesso patinate abbastanza involuto e gratuito da un lato e un’asciuttezza più contenuta dall’altro: tale oscillazione dà vita a una strana ambiguità formale, che magari dona qualcosa in termini di fascino ma confonde terribilmente l’assetto estetico del prodotto e i suoi equilibri interni: è come se le sovrastrutture venissero eliminate in forma plateale per essere poi reintegrate quasi di soppiatto, viaggiando con terribile inconcludenza dal pieno al vuoto, dal troppo di tutto alla totale e inerte assenza di stimoli reali. Il secondo episodio a firma di Lawrence Lau provvede invece quasi a sbeffeggiare gli stilemi dell’horror, divertendo e divertendosi, ubriacandosi di specchi e quadri che prendono vita e mandando incredibilmente a spasso i bambini contenuti al loro interno (le didascalie finali - dei cartelli assolutamente ironici – rileggono spesso quanto visto in una chiave nuova, non di rado esilarante). Fa peggio Teddy Robin Kwan in Black Umbrella, fidandosi forse troppo della simpatica freakerie del suo protagonista ma dimenticando di costruirgli intorno una storia adeguata o tantomeno un apparato registico all’altezza, capace di fornire spunti di interesse in merito alla rilettura visiva delle ghost story di partenza.