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Dal profondo

25/11/2013 12:00

Aurora Tamigio

Recensione Film,

Dal profondo

Narrato attraverso le parole commosse di una donna - Patrizia Saias, unica minatrice in Italia - Valentina Pedicini racconta un lavoro da uomo in un documentari

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Narrato attraverso le parole commosse di una donna - Patrizia Saias, unica minatrice in Italia - Valentina Pedicini racconta un lavoro da uomo in un documentario ambientato sottoterra, nella cava sarda Carbosulcis, in un luogo sospeso fra vita e oscurità.


La voce di Patrizia arriva dalla profondità della terra come un suono che ad essa appartiene, che si integra con la natura, anche quella che fa più paura, fatta di rocce e buio e silenzio, e di intere giornate trascorse fra le viscere del sottosuolo. Attraverso una testimonianza accorata, Valentina Pedicini - premiata documentarista brindisina classe 1978 – racconta una vita eccezionale, quella dell’unica minatrice di sesso femminile in Italia, che dal profondo della terra si riallaccia al ricordo del padre scomparso, come tanti altri colleghi, dopo essersi ammalato di silicosi. Accorciando la distanza fra il luogo dei vivi e quello dei morti, Patrizia parla da una zona intermedia che sta molti metri sotto il terreno, un limbo che ogni anno inchioda a sé migliaia di lavoratori attraverso un mestiere logorante e dimenticato. Per il suo documentario, cinematograficamente parecchio impegnativo, la Pedicini sceglie la miniera sarda di Carbosulcis, a Nuraxi Figus. Le cifre parlano di 150 minatori, 57.600 le ore trascorse sottoterra da ognuno di essi a 500 metri sotto il livello del mare. Fino alla crisi del mercato, nera come il carbone che non si vende più, che minaccia la sicurezza di un lavoro e costringe i minatori ad occupare. Ma protestare in una miniera non somiglia nemmeno un po’ a farlo in un cantiere o su un tetto. In un baratro, a mezzo chilometro sottoterra, non c’è luce, l’aria è poca, i suoni sono limitati solo a ciò che ci si impegna ad ascoltare. Allo stesso modo Valentina Pedicini realizza un film non leggero, che richiede silenzio mentale e pazienza, per restare in ascolto per 70 minuti solo del caos che si inquieta nei corpi dei minatori che, insieme alla propria dignità, dedicano parte del tempo nel buio a recuperare il ricordo dei propri cari, specie di chi non c’è più. Per Patrizia il lavoro in miniera non è solo un capriccio di parità femminista, è l’eredità lasciatole da suo padre, la sfida a mantenerne viva la memoria attraverso la dedizione ostinata per un mestiere faticoso e sfiancante.


Dopo aver esplorato nei precedenti documentari la figura femminile in contesti di differente difficoltà sociale e professionale, la regista ha dedicato quasi 2 anni di lavoro a quest’opera, accompagnata da un piccola troupe che ha vissuto sottoterra con lei per poco meno di un mese. Quello della Pedicini è qualcosa di più di un film “impegnato”, è un’esperienza che la regista ha compiuto accanto ai suoi protagonisti scegliendo di raccontare la lotta dei minatori dall’interno, in un luogo che ha il carattere claustrofobico di mura di pietra e carbone, sapientemente restituiti allo spettatore insieme ad un’ansiosa rincorsa della luce che ha, anche cinematograficamente, un’importanza simbolica. La discesa nelle viscere di una terra sfruttata, alla ricerca di una popolazione di lavoratori dimenticati, ha per la regista il valore di una simbolica catabasi: tuttavia, laddove il suo sguardo femminile incrocia la sensibilità di un’altra donna e della sua esistenza straordinaria, il tono della narrazione si fa intenso e positivo ed il cupo viaggio verso il profondo garantisce la speranza di una risalita alla luce.


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