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Il tocco del peccato

27/11/2013 11:00

Davide Stanzione

Recensione Film,

Il tocco del peccato

L’ultimo film di Jia Zhang-ke è una fiammata sorprendente e spiazzante, che piomba nella carriera del regista cinese segnando una nuova vena espressiva per l’au

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L’ultimo film di Jia Zhang-ke è una fiammata sorprendente e spiazzante, che piomba nella carriera del regista cinese segnando una nuova vena espressiva per l’autore di Platform. Le armi, il sangue che scorre a fiumi, la banalità della morte e l’esercizio di una crudeltà tanto miope quanto sbrigativamente perpetrata, la cui cecità ed efferatezza non possono non lasciare interdetti, sono gli elementi cardine di un film di eccezionale costruzione narrativa (suddiviso in quattro storie distinte) ma sublimemente intarsiato anche nella fermezza glaciale e brutale della sua estetica, forzata fino a raggiungere dei livelli in gran parte inediti per le corde di Jia. Il regista del verginale, originalissimo Still Life ha lasciato spazio a un indagatore oltre che profondo conoscitore della violenza quale chiave di lettura del contemporaneo, un metteur en scène di ferro (e di fuoco) che al festival di Cannes 2013 si è dovuto accontentare del premio alla miglior sceneggiatura. Il riconoscimento forse addirittura meno indicato per un’opera enorme che anche attraverso le ripartizioni e le tappe in cui si articola e che propone allo spettatore riesce a farsi carico di una concettualizzazione della ferinità antropologica decisamente non da poco.


Quella di Jia, cineasta da sempre intimamente sovversivo e quasi mai allineato (oltre che scrittore, e non si può dire a tempo perso), diventa una forma cerebrale di pittura in movimento, nitida e abbagliante, che non sa però rinunciare alle accensioni più viscerali e preferisce cedere di fronte ad esse, come una gabbia toracica che collassa sotto i colpi di un mortaio. Un serpente che scorre in autostrada, esemplificativo e simbolico, è metafora di un malessere difficile da identificare, subdolo e sgusciante, seminascosto dalle cattedrali sorgenti di un iper-sviluppo frontale, sbattuto di continuo sotto gli occhi di tutti, impressionante nei numeri e nelle stime. Al futurismo dello sviluppo cinese coincide però un’impostazione politico-territoriale ancora schiava dei vecchi distretti, di una penuria preordinata da parte dei poteri forti: limitazioni vincolanti che impediscono di raccordare la volontà potenziale con l’atto, generando incompiutezze, producendo un capitalismo mancato dannoso e ben poco catartico, che non libera ma stritola ancor di più.


Jia denuncia, fa a fette, mette in scena prostitute trattate con violenza inaudita, costella il suo film di una quantità non indifferente di momenti alla Takeshi Kitano, che di Jia Zhang-ke, non scordiamolo, è maestro, amico e primo (o quasi) tra i reali supporter produttivi, e non solo. In A Touch of Sin quello che è a tutti gli effetti uno dei più grandi cineasti asiatici rispolvera il tema dell’alienazione, riscopre il panteismo per tutti gli esseri del creato (alle soglie del pessimismo contemplativo), spinge sulla buia cupezza di un mondo allo sbando con immersioni nel pulp puro e semplice, così lontane ma anche così vicine, per contrasto, ai silenzi pneumatici di Still Life, che pure raccontavano della nascita di un’anti-umanità dilagante all’interno di un microcosmo. Il film ha sterzate e cambi di rotta, prese di posizione e divagazioni da dramma corale, sequenze potentissime e un cuore tragico che è in grado di trovare la verità anche nella stilizzazione, nell’eccesso, nella deviazione antirealista. Jia si conferma cineasta di assoluta eccellenza, cantore schivo e interprete all’altezza di una nazione-cosmo sterminata e complessa tanto quanto le sue problematiche contraddizioni.


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