Per la maggior parte del pubblico il nome di Alessandro Rak è solo uno tra i tanti; i più attenti, però, vi riconoscono il nome di uno dei maggiori fumettisti italiani. Rak ha aperto adesso una breccia nel cuore degli spettatori cinematografici grazie a L’arte della felicità , una piccola perla d’animazione che, scevra dai cliché del genere e grazie ad un tono decisamente adulto, rappresenta un vero e proprio miracolo, specie se inserito in un contesto come quello cinematografico italiano che raramente osa rischiare con prodotti che non assicurano, già a tavolino, un successo esorbitante. Sergio è un tassista pieno di dubbi esistenziali e di debolezze umane, tutte legate soprattutto alla scomparsa del fratello-filosofo Alfredo, che anni prima aveva abbandonato l’Italia per dedicarsi alla sua vocazione da monaco buddista. Una vocazione, questa, che se da una parte aveva spinto Sergio a rifiutare il suo amore per la musica e il pianoforte, spingendolo a diventare un volgare tassista partenopeo, dall’altro lo inizia ad un tipo di riflessione zen. Ora che Alfredo è morto, Sergio recupera quegli insegnamenti, cerca di farli propri, e nel frattempo apre le porte del suo taxi ad una galleria variopinta di personaggi che, con i loro racconti e le loro esperienze, riusciranno a cambiare la vita di Sergio e il suo modo di rapportarsi ad essa. Dopo aver aperto la sezione della Settimana della Critica alla 70^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ora L’arte della felicità dimostra il grande talento visivo di Alessandro Rak anche dietro la macchina da presa. Il regista-disegnatore confeziona un film perfettamente calibrato, dove le varie parti del racconto riescono ad intrecciarsi senza alcuno sforzo apparente. Il protagonista deve vedersela con l’accettazione di un lutto improvviso, immerso in un mondo che di colpo appare privo di colori. Il suo taxi, allora, diventa una sorta di rifugio, un microcosmo dove poter affrontare il dolore. Il viaggio in macchina, tra le vie della città , si alterna al viaggio interiore, evolvendosi in una persona in grado di accettare le cose che, a questo mondo, non si possono cambiare. Alle sue spalle si allarga, quasi come un mostro tentacolare, una Napoli al massimo del suo degrado, una sorta di città post-apocalittica che inghiotte la luce e la positività ad essa legata. Il capoluogo partenopeo diventa una protagonista aggiunta, una sorta di nemesi che Sergio ama e odia allo stesso tempo. Napoli l’ha inghiottito, l’ha tenuto lontano da suo fratello, e allo stesso tempo l’ha procreato, l’ha messo al mondo e gli ha dato un rifugio in cui scappare. Grazie ad una danza quasi forsennata di flashback e salti temporali, Rak dirige un film visivamente eccessivo, quasi surreale, e intriso di una colonna sonora acculturata che spinge ancor di più il pubblico adulto a immedesimarsi e riflettere.