Bruno (Claudio Santamaria) è un informatore farmaceutico di quarant’anni che lavora per la Zafer, industria capitanata da un’algida regina bionda (Isabella Ferrari); soprattutto, però, la Zafer è un’industria che cerca di portare sul mercato, spesso tramite azioni non del tutto legali, medicinali di cui, fondamentalmente, non v’è alcun bisogno. Arriva però il momento in cui la Zafer, dopo aver investito parecchi soldi su un medicinale che si prospetta essere obsoleto, entra in crisi; timoroso di perdere il proprio posto di lavoro, Bruno comincia a seguire l’esempio dei suoi colleghi, cercando, attraverso la corruzione, di piazzare quante più fiale possibili. Al suo secondo lungometraggio di finzione – dopo l’escursione documentaristica di Non son l’uno per cento sulla Federazione Anarchica Italiana – Antonio Morabito si cimenta con una storia gretta e intollerabile per la sua infernale vicinanza alla realtà . Il mondo che il regista di Massa Carrara analizza è quello della corruzione in ambito farmaceutico, divenuto ormai una vera e propria piaga sul suolo italico, tanto da richiamare numerose inchieste giornalistiche. Il regista, con il suo ampio bagaglio culturale in ambito documentaristico, avrebbe potuto confezionare un film d’inchiesta, un documentario in cui intervistare vittime e carnefici, spingendo il pubblico ad additare i colpevoli che si arricchiscono sulla malattia e la pelle di gente spesso ignara. Invece Morabito accetta la sfida, e porta al cinema un thriller teso, in cui le volute del destino nefasto avvolgono il personaggio gradualmente, in una lenta danza infernale che spinge Bruno a diventare quasi una maschera dell’orrore, un umano privo d’anima. Perché il protagonista di questo film non è, in definitiva, un uomo malvagio che agisce in seguito ad istinti luciferini, quanto piuttosto una pallida pedina di un sistema più grande, che spinge gli uomini a pensare di doversi occupare solo del proprio tornaconto personale. Ciò che conta non è comportarsi bene, ma mantenere il proprio posto di lavoro e i propri privilegi. Ad ogni costo. Il venditore di medicine non è neanche lontanamente un film perfetto: il punto di vista del regista a volte appare sin troppo altalenante, come se non avesse il coraggio di giudicare e, allo stesso tempo, si sforzasse di non far emergere il proprio giudizio sulla situazione raccontata. In questa dimensione sospesa, in cui la natura stessa del film risulta spezzata, ad alzare il livello dell’intera operazione è comunque la ottima interpretazione di Santamaria, con la sua valigetta che si trasforma in una sorta di protesi, e la sua aria smorta, come se la sua anima si prosciugasse gradualmente da ogni afflato umanistico. L’attore riesce a costruire questo personaggio figlio dei nostri nefasti tempi: e il suo destino, congiunto a quello di molte persone che tocca senza esserne consapevole, e i consigli di colleghi altrettanto diabolici, è uno degli elementi che riesce a risvegliare l’attenzione del pubblico, che partecipa alla visione, ne viene tentato, pur con qualche riserva su parti meno riuscite e meno coraggiose. Nonostante questo, però, Il venditore di medicine resta una prova encomiabile di ciò che il cinema potrebbe (e dovrebbe) essere.