Il giovane regista classe ’81 Kiarash Asadizadeh, per il suo film d’esordio, porta in scena un estratto dall’Iran dei giorni nostri, dove uomini e donne vivono relazioni complicate e instabili, dove la certezza sentimentale e la felicità di coppia sembrano divenire solo mere utopie irraggiungibili. Acrid è un racconto corale che mette al centro del proprio nucleo narrativo l’intrecciarsi di relazioni, illusioni e delusioni. Jalal (Ehsan Amani) e Soheila (Roya Javidniya) sono sposati, ma si sopportano poco, tanto da rivolgersi a malapena la parola. Azar (Pantea Panahiha), che lavora per Jalal, è in procinto di lasciare suo marito Khosro (Saber Abar) per sempre, dopo aver scoperto che la tradisce con Simin (Shabnam Moghadami), una sua allieva alla scuola guida. Simin, nel frattempo, che insegna nella facoltà di medicina della città è preoccupata per una sua allieva, Mahsa (Mahsa Alafar), che aspetta un bambino e sospetta che il suo ragazzo Reza (Mohammad Ghaffari) abbia in realtà una storia segreta con un’altra donna. Come se non bastasse Simin sta anche offrendo rifugio a Sara (Nawal Sharifi), una donna sottomessa alle vessazioni fisiche di un marito alcolizzato (Siyamak Safari). Film corale al femminile Acrid tenta di descrivere la situazione della famiglia iraniana con verosimiglianza e il risultato è tutt’altro che rassicurante. Asadizadeh descrive un mondo diviso tra donne e uomini, separati da un modo diverso di concepire non solo il sesso, ma la cultura in generale. Le donne della pellicola sono belle e acculturale, ben educate e capaci di districarsi in una vita tutt’altro che rose e fiori; più di tutto, però, le protagoniste di questo bel film hanno la capacità di resistere ai più bassi istinti degli uomini. Acrid parla di donne che sono vittime delle bassezze maschili, dell’incapacità di governare i propri istinti sessuali e, soprattutto, di accontentarsi e di essere felici con la persona che si ha accanto. Tutto questo, però, è reso da Asadizadeh senza ricorrere a facili stereotipi e, sebbene il rischio di retorica campeggi un po’ per tutto il film, è indubbio che il risultato finale è molto spesso scevro di cliché banali sui rapporti sentimentali tra uomini e donne. Questo intento quasi analitico è reso ancora più pregnante da una regia minimalista, che non abbellisce la realtà , né la carica di simboli iconografici utili solo a rendere più appetibile la messa in scena. Asadizadeh rinuncia a qualsiasi fronzolo artificiale, e si concentra solo sulla storia, su questo microcosmo iraniano che non dà certezze, su queste donne che riempiono lo schermo con la loro forza e le loro umane debolezze, grazie soprattutto ad ottime interpretazioni che permettono allo spettatore di entrare subito in empatia con le protagoniste, senza tuttavia condannare mai del tutto i loro compagni.