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I corpi estranei

05/12/2013 11:00

Valentina Pettinato

Recensione Film,

I corpi estranei

Antonio (Filippo Timi) e Jaber (Jaouher Brahim Ben Fredj) sono due persone molto diverse: uno è un padre di famiglia toscano, trasferitosi a Milano per far cura

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Antonio (Filippo Timi) e Jaber (Jaouher Brahim Ben Fredj) sono due persone molto diverse: uno è un padre di famiglia toscano, trasferitosi a Milano per far curare il suo bambino che ha un tumore al cervello; l’altro è un giovane arabo che si trova spesso nello stesso ospedale di Antonio per far visita a un amico. Antonio e Jaber sono i due protagonisti del film che sancisce il ritorno di Mirko Locatelli dietro la macchina da presa, a cinque anni di distanza dal suo ultimo lavoro Il primo giorno d'inverno, sempre al fianco di sua moglie Giuditta Tarantelli che assieme a lui ha sceneggiato e prodotto il film. I corpi estranei racconta la vita di una categoria particolare di persone: quelle costrette ad abbandonare i propri affetti, non per lavoro ma per amore. L’amore in questione non è quello tipico di un rapporto di coppia ma di un genitore verso il proprio figlio.


Antonio è il padre di Pietro, ricoverato in ospedale per un cancro al cervello. Per consentire al bambino di avere tutte le cure possibili lascia la famiglia – moglie e l’altro figlio – e da solo con una valigia di vestiti parte da Pistoia per trascorrere le sue giornate tra le corsie di un ospedale di Milano. Tra accertamenti medici, calvari farmacologici, speranze e tanto sconforto il film cerca di raccontare il dramma di un genitore alle prese forse con uno dei dolori più grandi che possa capitare nella vita. Percorso che lo porta a inventarsi nuovi passatempi, incuriosirsi a cose, persone, che mai forse l’avrebbero attratto nella vita perché totalmente distanti dalla sua realtà. Tra queste una serie di personaggi arabi, Jaber ad esempio, che gravitano attorno all’ospedale. Ognuno di loro ha una persona cara che combatte per guarire: in questa partigianeria verso un comune nemico i multietnici avventori di questo ospedale non sono più tanto diversi. Jaber in particolare sembra interessarsi molto alla vita di Antonio, informandosi spesso sullo stato di salute del bambino e cercando di essergli d’aiuto quando qualche problema sembra complicargli ulteriormente questa permanenza forzata in una minuscola stanza d’ospedale. Antonio lotta contro la sua solitudine e il tempo che sembra non passare mai, mentre prende l’ennesimo caffè davanti a grottesche macchinette equo-solidali dotate di anima. Tra una terapia e l’altra ha così modo di potersi soffermare su cose totalmente distanti da sé che non avrebbero mai attirato la sua attenzione: una comunità fatta di altri miti da pregare, unguenti da spalmare, mutuo soccorso e lavoretti sommersi.


I corpi estranei è prodotto poco cinematografico, un tentativo di seguire un protagonista in un percorso che lo vede da solo e in balia di emozioni estranee. Religioni, malattie, differenze culturali, sociali, abitudini: poco importa. Antonio è distante, è chiuso. Non vuole conoscere nulla che non sia la sua piccola dimensione e non si sarebbe probabilmente mai aperto se non costretto da tristi contingenze. Ma anche in questo caso non si tratta di una vera e propria apertura bensì di mettere a fuoco situazioni che prima erano sconosciute, sbiadite, immaginate solo per sentito dire. L’idea dalla quale trae spunto il film è davvero interessante, il problema è che si innesta - proprio come quei corpi estranei di cui parla - su una struttura troppo debole. Non c’è trama, non c’è intreccio, non ci sono dinamiche. Il protagonista è ripreso in maniera monocorde mentre telefona, si prende cura del suo bambino, spia guardingo i comportamenti della comunità vicina. La ricostruzione della storia è lasciata nelle mani e nel lavoro dello spettatore, che da scampoli di conversazione e velati accenni prova a immaginarsi cosa succede davvero nella vita del protagonista, che scorre come un documentario il cui tema non è ben specificato. Se per corpi estranei si intende tutto ciò che Antonio si è rifiutato di osservare fino a quel momento non è chiaro, si può solo presumere per dare un senso al lavoro complessivo. Certo, portare sullo schermo la fatica di chi per amore si adatta a vivere senza una casa, in una microstanza priva di comfort, con la stessa valigia di vestiti per un tempo indeterminato è sicuramente una scelta apprezzabile e interessante. Ma decidere di girarlo in maniera essenziale e scarna poco si adatta alle troppe tematiche in gioco, che così appaiono poco approfondite, scollate tra di loro e si fatica a trovare una pista comune. Malattia? Padri che si prendono cura dei loro figli? Tema razziale? Tutto sembra estremamente estraneo.


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