Stati Uniti, fine degli anni ’70. Irving Rosenfeld (Christian Bale) e la sua socia Sydney Prosser (Amy Adams) sono due tra i migliori truffatori finanziari d’America. L’agente dell’FBI Richie DiMaso (Bradley Cooper) costringe la coppia a collaborare col governo all’operazione Abscam, un grande inganno tessuto ai danni di mafiosi e uomini politici al fine di smascherarne i loschi affari. Carmine Polito (Jeremy Renner), sindaco di una piccola città del New Jersey, è uno degli obbiettivi di questa operazione. In un susseguirsi continuo di truffe e raggiri, la seducente moglie di Irving, Rosalyn (Jennifer Lawrence), rappresenta la scheggia impazzita che potrebbe mandare all’aria ogni cosa. La sceneggiatura di Eric Warren Singer, tratta da una storia vera, era alla ricerca di un regista dal 2010, quando, col titolo di American Bullshit, fu menzionata nella Black List dei migliori soggetti rimasti irrealizzati di quell’anno. Dopo aver considerato diversi nomi (tra i quali anche Ben Affleck, che aveva già collaborato con Singer per Argo), l’Atlas Entertainment ha affidato il progetto a David O. Russell, regista acclamato per i precedenti The Fighter (2010) e Il Lato Positivo (2012). Confermando molti degli interpreti dei suoi film precedenti, O. Russell confeziona un film corale che si interessa più dello scontro tra i personaggi che della narrazione delle truffe di Rosenfeld e della Prosser, anomalia rispetto alla norma hollywoodiana del genere. Il regista newyorkese conferma ancora una volta la sua straordinaria capacità di delineare i caratteri, i sogni e le contraddizioni delle vite che animano i suoi film, aiutato certamente dalle magistrali interpretazioni di ognuno dei protagonisti. Sta forse proprio nella reciprocità del rapporto attori/regia uno dei punti forti del cinema di Russell, autore che fa dei propri interpreti il perno della propria macchina narrativa: non è un caso che i suoi due film precedenti abbiano portato prima Christian Bale e poi Jennifer Lawrence all’Oscar. Pur inserendosi in maniera coerente nella sua filmografia, American Hustle è un film ostentato che innesta delle sostanziali novità all’interno dell’attività del regista: notevole è infatti il ruolo attivo del make up e dei costumi come strumento di ironia oltre che d’indicazione spazio-temporale. Prestandosi al gioco delle continue mistificazioni della trama, gli anni ’70 descritti dal film rivelano tutta la loro plasticità e falsità , suggerendo l’idea che con questa precisa scelta estetica il senso del grottesco maturato da Russell cerchi in verità di mettere a nudo l’inganno per eccellenza, il cinema stesso. E in questo campo, a partire da F for Fake di Welles, i precedenti illustri sono piuttosto ingombranti.