Pompei è il raro esempio di un’occasione culturale offerta dalla sala cinematografica per interfacciarsi direttamente con la classicità , o per meglio dire con ciò che ne rimane oggi presso il pubblico in termini di conservazione e diffusione. A dir poco interessante anche se non del tutto inedito, dunque, che una Mostra del British Museum possa essere vista da quante più persone possibile grazie alla mediazione del grande schermo; al di là del dato, c’è da scommettere non indifferente, di quanti avranno poi modo di visitarla effettivamente. È con dovizia di particolari, gusto letterario, precisione scientifica delle ricostruzioni grafiche e perfino un po’ di sano umorismo, proprio di chi è in grado di spaziare in un argomento con una conoscenza tale da coglierne le infinite direzioni, che Pompei racconta la vicenda delle due cittadine sommerse e spazzate via nel 79 d.C. dal Vesuvio. Riuscendo letteralmente a ridare vita, attraverso il sempiterno binomio parola–immagine, a due roccaforti tra le più significative del passato dell’umanità . Il direttore del British Museum Neil McGregor apre così le porte agli occhi delle telecamere che s’inoltrano curiose nel patrimonio sconfinato di queste culle di civiltà imperiale senza precedenti, i cui resti sono per gli studiosi materia preziosa d’analisi e somma ragione d’interesse. Anche gli oggetti più piccoli e apparentemente insignificanti tra quelli ritrovati tra le loro rovine riescono infatti a rivelare dietro di sé un intero mondo, apparendo tanto più rilevanti quanto più collegati alla quotidianità diretta e all’uso ordinario e pragmatico cui erano destinati, presumibilmente o con buona certezza. Utensili, ammennicoli, ma anche esseri viventi veri e propri: un cane aggrovigliato nella morsa della lava e rimasto in quella posizione per migliaia di anni, per non parlare di un intero nucleo familiare immortalato mentre viene sterminato dalla colata implacabile. Gli studi archeologici che Pompei ci restituisce, proprio come il cinema, rubano alla realtà e ne protraggono oltremisura la cassa di risonanza, creando anche in questo caso delle proiezioni falsificate, dentro il tempo e allo stesso tempo fuori da esso, in grado di parlare a noi contemporanei proprio perché fissate nella loro immobilità come spilloni conficcati struggentemente in un cuscino. La stessa malinconia della fuga disperata e impossibile cui gli abitanti dei due centri abitati provarono a realizzare, riuscendo a salvarsi, va detto, in numero meno esiguo di quel che si potrebbe essere lacrimevolmente portati a credere (uno dei tanti luoghi comuni che il documentario-presentazione si propone di sfatare). Pompei sarà anche portavoce di un’idea di museificazione cinematograficamente laccata e convenzionale, autopromozionale e televisiva (nel finale si ammicca all’App Store del Museo in parte rompendo l’incanto e l’incredula sospensione della visione). E di sicuro è del tutto estraneo alle pulsioni vitali, romantiche, filosofiche e ancestrali di Werner Herzog e del suo Cave of Forgotten Dreams, per citare uno degli esempi più luminosi in materia degli ultimi vent’anni (almeno). Però è un prodotto onesto e lodevole oltre che lodabile, che può beneficiare di ottimi e stimolanti esperti dotati di una capacità d’esposizione accattivante e affabulazione davvero notevoli. Tra di essi una menzione speciale è da tributare sicuramente a Mary Beard, una delle più grandi classiciste del Regno Unito (celebri i suoi interventi sul Time), esperta di sesso, cibo e politica nell’antica Roma e autrice di un blog spesso provocatorio come A Don’s Life. Il buon successo che Pompei ha riscontrato al botteghino, molto più di qualsiasi lode o bollino di qualità certificata provenienti da chicchessia, dovrebbe suscitare in qualcuno ben più che una riflessione.