Yann (Francois Cluzot) ha la possibilità di partecipare alla Vendée Globe, la regata intorno al mondo condotta in solitario, quando il suo amico Franck (Guillaume Canet) risulta improvvisamente indisponibile a causa di un infortunio. Una sosta forzata per una riparazione al timone della sua imbarcazione sarà però l'occasione per l'incontro con Mano Ixa (Samy Seghir), un ragazzo originario della Mauritania bisognoso di cure. Una conoscenza improvvisa che cambierà non poco l'iter dell'avventura di Yann. En solitaire, opera prima di Christian Offenstein, è un impacciato ibrido tra film sportivo e la tematica dell'immigrazione sociale, consumata nel rapporto tra un giovane immigrato e il suo potenziale mentore, inizialmente scontroso e poi redento. Peccato che il film manchi però sia di problematizzazione - anche minima - che di un'idea di messa in scena, scomparendo ben presto nell’anonimato di un buonismo compulsivo in cui non c'è tensione ma solo amorfo conformismo. Ne viene fuori un film pulito pulito, ligio a priori, più che non sporcarsi si rintana in un innocuo immaginario parrocchiale. Nessuna dinamica né tantomeno del dinamismo, nel racconto di un contatto culturale come nella resa adrenalinica di un'impresa che dovrebbe essere vicina al gesto spericolato ed estremo e che invece si traduce in una passerella patinata, dove dei cartelli ci informano sul punto e la destinazione cui è arrivato il viaggio in mare di Yann senza che nessuna scelta di regia intervenga a dare forma a un'ansia inquieta, a un dubbio da parte dello spettatore, a una sospensione dell'incredulità di qualsiasi tipo. Evidentemente Offenstein, che ha alle spalle una lunga trafila di operatore, il salto concettuale e artistico al concetto di regia non l'ha ancora compiuto: non è un caso se la regata si conclude su una serie di inquadrature a dir poco scolastiche e campi lunghissimi più vicini al megaspot alla Caressa che al cinema, a riprova di una commercializzazione continua di un'immagine che più che ospitare un contenuto sembra pensare a priori alla sua vendibilità . Una tendenza confermata dall'abusatissima canzone finale usata in modo scontato e piatto (Knocking on Heaven's Door di Bob Dylan), dalla scrittura approssimativa e piatta dei personaggi e delle situazioni, dai furbi tramonti che incorniciano una nostalgia odisseica ma di confezione, in cui l'assenza e la distanza dagli affetti del protagonista è filtrata solo da esemplari vari di tecnologia 2.0 (skype, cellulari, videochat) e il pur bravo Cluzot, più che al mitico e astuto eroe del mito classico, finisce col somigliare al Reinhold Messner della pubblicità della Levissima. Esisterebbe anche, volendo, una forma di convenzionalità accettabile, primitiva e rassicurante, che al cinema sa essere prevedibile senza risultare mortificante e barbosa. Duole dire che non è proprio questo il caso.