Dal quadro nero emergono i dettagli di una cupa locanda di Brea (la stessa de Il signore degli anelli – la compagnia dell’anello): Su un tavolo in penombra, Thorin Scudodiquercia (Richard Armitage) accetta ciò che il destino ha in serbo per lui, il diritto di riprendersi il regno di Erebor dalle grinfie del drago Smaug (Benedict Cumberbatch). Da quell’incontro sono passati dodici mesi e ora, sulle soglie del misterioso Bosco Atro, dopo l’ospitalità offerta dal muta pelle Beorn (Mikael Persbrandt), i nani e Bilbo (Martin Freeman) sono costretti ad affrontare gli elfi silvani, guidati da re Thranduil (Lee Pace) e da suo figlio Legolas (Orlando Bloom). Gandalf è lontano, a inseguire le ombre di un Negromante (ancora Benedict Cumberbatch) che minaccia di far esplodere un potere che si pensava fosse stato abbattuto per sempre. A un anno di distanza da Lo hobbit – un viaggio inaspettato, Peter Jackson torna nella sua amata Terra di Mezzo, per seguire (e approfondire) il viaggio che portò Bilbo Baggins a diventare il possessore dell’Unico Anello e l’Uccisore di Draghi conosciuto in The Lord of the Rings. Come per il precedente episodio, anche in La desolazione di Smaug il regista non focalizza l'attenzione esclusivamente sulla narrazione lineare del romanzo di riferimento, ma attinge a molte appendici de Il signore degli anelli, creando una sorta di ponte immaginario utile a creare un legame tra le due trilogie. In questo senso è esemplare il ritorno di Legolas e delle sue boriose acrobazie. Eppure è proprio sul versante degli elfi che la sceneggiatura mostra le prime crepe. Il personaggio di Tauriel, interpretato da Evangeline Lilly e inventata ex novo da Jackson, ha il solo risultato di rallentare la fruizione. Il suo personaggio è vuoto, brutta copia della splendida Liv Tayler, ed utile solo a creare uno scialbo triangolo amoroso. L’idea dell’amore che travalica le razze era stato reso già – e decisamente molto meglio – nella prima trilogia: l’avevamo visto nell’amore che lega Aragorn ad Arwen, nell’amicizia tra Legolas e Gimli. In questo film, invece, tutto quello che si ottiene è un’accozzaglia di sentimentalismi di discutibile qualità , che toglie spazio ad elementi di maggior interesse, come ad esempio la lotta tra Thorin e Azog (Manu Bennett). Ma, se si guarda La desolazione di Smaug nel suo quadro generale, si deve ammettere che i difetti della pellicola si contano sulla punta delle dita. La resa tecnica – sempre ad una velocità raddoppiata di 48 fotogrammi al secondo – è incredibile, specie per quanto riguarda la costruzione in CGI del maestoso Smaug. Nonostante siano presenti scene dalla forteimpronta videoludica (la lotta tra Legolas e gli orchi a Ponte Lagolungo) e altre che rasentano la comicità (la scena della fuga dei nani in una rivisitazione del rafting), il 3D di Peter Jackson è maestoso, capace – ancora una volta – di annullare il gap dovuto a scene troppo buie. La tridimensionalità diventa mezzo di costruzione, strumento per dar consistenza non solo agli oggetti, ma soprattutto ai luoghi, restituendo un perfetto sentimento di profondità . Ma il vero protagonista di La desolazione di Smaug è ancora il livello umano dei personaggi chiamati in scena; su tutti, naturalmente, Bilbo Baggins si conferma personaggio archetipico che segue le tappe del Viaggio dell’Eroe stilato da Christopher Vogler; Bilbo accetta una missione più grande di lui e finisce per diventare l’elemento fondamentale per la riuscita. E in questo tuffo cieco, in questo incedere coraggioso, Bilbo si trova davanti ad un mondo che cambia. «Non sei più lo stesso hobbit», gli dice Gandalf, ma la realtà è che neanche la Terra di Mezzo è più la stessa, e non c’è niente che nessuno possa fare per fermare il cambiamento. Un’amara lezione che lo hobbit capirà forse troppo tardi, nell’ultimo fotogramma del film, quando il peso delle sue azioni gli cadrà addosso, con un prezzo troppo alto da pagare.